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Bioarte, l’allarme ambientale nelle forme del diorama

Mariko Kusumoto (Kumamoto, 1967), «Ethereal Garden», 2024, tessuto di poliestere, cotone, filo di ferroMariko Kusumoto (Kumamoto, 1967), «Ethereal Garden», 2024, tessuto di poliestere, cotone, filo di ferro

Al Man di Nuoro Dipinti e sculture, installazioni e video si fondono in una specie di opera d’arte totale. Da Susanne Bauer a Giovanni Chiamenti, una trentina gli artisti, sotto l’egida di Maria Lai: «generazione Terra»

Pubblicato 15 minuti faEdizione del 29 settembre 2024

«Forse che il grande sogno ad occhi aperti dell’arte moderna di cambiare la vita si è realizzato, sia pure una volta soltanto, proprio qui, in questo luogo lontano dove i nomi prestigiosi dell’avanguardia artistica non sono altro che nomi?», si chiedeva Filiberto Menna su Paese Sera del settembre 1982 da Ulàssai dove Maria Lai, l’anno prima, aveva coinvolto l’intera comunità del piccolo borgo sardo a Legarsi alla montagna in quel progetto destinato a diventare una pietra miliare dell’arte relazionale. «Credo di sì – scriveva il critico salernitano – qui, l’arte è riuscita là dove religione e politica non erano riuscite a fare altrettanto». Una chiosa che ben si può arrangiare alla mostra DIORAMA in corso fino al 10 novembre al MAN di Nuoro. Con un sottotitolo, Generation Earth, che suggerisce che a legare tra di loro, come fece un tempo il nastro celeste nel non lontano borgo dell’Ogliastra, le opere di una trentina di artisti internazionali sia, oggi, l’urgenza di riflettere e lavorare sull’impatto di un mondo in rapida e continua metamorfosi sul genere umano.

Come Maria Lai lasciò a ciascun abitante libera scelta sul modo di legarsi al proprio vicino di casa, così la direttrice del museo Chiara Gatti che, con Elisabetta Masala, cura la rassegna, crea senza apparenti steccati un percorso che, pur attraversando tutti i livelli del museo, si coagula in un’unica grande opera: esperimento perfettamente riuscito; un unico, originale diorama, appunto. L’operazione si colloca, più che nelle pratiche del cosiddetto reenactment di display storici, riedizioni di teche, vetrine o Wunderkammern assai battute negli ultimi decenni da artisti e curatori, di cui pure la presente mostra dà saggi notevoli, nel genere della Gesamtkunstwerk o opera d’arte totale che dir si voglia. Dove dipinti e sculture, installazioni e video si fondono, come spiegano le curatrici, in «un ventaglio di interpretazioni che spaziano dalla creatività mimetica alla trattazione del post-naturale, dall’ibridazione interspecifica alla tassidermia da Wunderkammer, dall’invenzione del paesaggio naturale alle inesplorate visioni dell’intelligenza generativa».

Ma cosa sono, o meglio, cos’erano i diorami? Dispositivi museali tra i più longevi, in una prima declinazione erano – sono – realizzazioni tridimensionali in scala, prossime ai «modellini», per ricostruire ambientazioni, spaccati di vita, specialmente care ai musei etnografici e scientifici. «Sono» perché in alcuni casi, pur nella fragilità dei materiali, si sono conservati; in altri se ne producono persino di nuovi. «Erano» perché nella maggior parte degli allestimenti essi sono stati sostituiti da impianti virtuali.

Un’altra versione del diorama rinvia a un’invenzione attribuita al padre della fotografia, Daguerre. Consisteva in un vero e proprio spettacolo che, attorno agli anni venti dell’Ottocento, ebbe un grande successo. Diorama qui era il nome di una grande sala a cupola dove veniva tesa verticalmente una gigantesca tela traslucida dipinta su entrambi i lati. La scena sulla faccia verso il pubblico a tinte più tenui, quella posteriore più forte, in modo che, attraverso opportuni giochi di luci e d’ombre, si ottenessero effetti di movimento come di passaggi dal giorno alla notte. I diorami nelle loro realizzazioni tradizionali si pongono dunque nella preistoria dei display immersivi di cui sono fatti, bene o, molto più spesso, male, i percorsi museali di oggi.

Della potenza di queste macchine, nella mostra al MAN, gli esempi, tutti incentrati sul dibattuto tema dell’antropocene, sono magnifici. Uomo (donna) e natura erano centrali anche nei pionieristici interventi della Lai che a lungo utilizzò telai e tessiture che, senza legami diretti, affiorano talvolta nelle opere esposte all’interno della mostra nuorese. Ci sono le foglie incastonate nell’uncinetto, insieme naturalia e mirabilia, di Susanne Bauer accanto a quelle, nei Vuoti d’aria di Elisabetta di Maggio, che ne svelano le tessiture più profonde.

Il linguaggio delle api che ricamano (anche loro) cellette esagonali attorno a una serie di volumi Treccani (simbolo del linguaggio dell’uomo) destinati al macero è il coautore del lavoro di Francesco Panozzo. Sono tessute anche le Life Flow Coral di Vanessa Barragão, mimesi poetica che denuncia la corrosione delle barriere coralline. Sono anch’esse diorami, come lo sono i grattacieli di nidi di merlo abbandonati di Alessandro Biggio. Diorami digitali, come l’installazione video The Substitute di Alexandra Daisy Ginsberg che ridà vita (forse) a Sudan, quello che era ritenuto l’ultimo esemplare di rinoceronte bianco, specie a rischio estinzione a causa del bracconaggio. Di «un laboratorio per creature ibride», nella descrizione delle curatrici, è costellata la galleria con cui si chiude la mostra.

Ancora diorami rivivono nelle tassidermie a innesto (pavone/pinguino; oca/pavone; agnello/cane) di Thomas Grünfeld o in Golden Still Life di Chiara Lecca, parte di una serie di nature morte composte dall’artista a partire da orecchie di animali provenienti dagli scarti dell’industria animale. Ci sono poi le teche rilette nel lavoro di Giovanni Chiamenti (HORECA 3000), una vetrina refrigerata contenente creature ibride.

Così, come il già citato Menna di oltre quarant’anni fa, qui l’arte, ponendo artisti e curatrici quali catalizzatori di un cambiamento radicale urgente, «è riuscita là dove religione e politica non erano riuscite a fare altrettanto», per cui – tanto più che le novità impongono una tappa anche nel paese originario di Maria Lai, quell’Ulàssai con i recenti riallestimenti della Stazione dell’arte e il nuovo spazio CAMUC (Casa Museo Cannas) – vale, per chiudere, l’invito che fece Menna all’epoca: «vorrei consigliare ai viaggiatori della Sardegna un itinerario artistico contemporaneo che integri il più noto e prestigioso itinerario archeologico (…). Un’indicazione, per nuovi viandanti, di qualche occasione estetica meno scontata». E magari, un’occasione, anche, etica.

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