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Bioarte, dialogo terapeutico con la montagna

Bioarte, dialogo terapeutico con la montagnaMarzia Migliora all’opera nella Tenuta di San Leonardo (Trento) per la sua opera «Paradossi dell’Abbondanza #61» (La Rivoluzione del Tempo Profondo), 2024, presentata nella mostra «The Mountain Touch»

Al Muse di Trento Da Anziché a Stridsberg, da Kreutzer a Migliora, diciassette artisti declinano in diversi linguaggi, mai ingenui, le ferite del pianeta, dando forza di visione al lavoro della scienza: «The Mountain Touch»

Pubblicato 5 giorni faEdizione del 29 settembre 2024

«Non ci possiamo più permettere il lusso di non pensare alle conseguenze sull’ambiente delle nostre azioni individuali e collettive. E abbiamo raggiunto uno stadio in cui queste riflessioni si possono integrare con i nostri sentimenti estetici».

Risale ai primi anni di questo minaccioso secolo la dichiarazione di Olafur Eliasson, l’artista danese reso celebre nel 2003 dalla monumentale installazione The Weather Project alla Turbine Hall della Tate modern. Una semplice e inequivoca affermazione che lo stesso Eliasson non ha poi mancato di tradurre in opere e progetti memorabili: uno per tutti, quello promosso insieme al geologo Minik Rosing per denunciare gli effetti del cambiamento climatico, un’installazione colossale che ha proposto nelle piazze di Copenhagen, di Parigi e di Londra frammenti degli iceberg provenienti dai fiordi, sempre più caldi, della Groenlandia. Ice Watch – questo il titolo dell’opera – ha probabilmente rappresentato negli anni dieci la manifestazione più spettacolare di una nuova, allarmata sensibilità da parte degli artisti per i temi ambientali, un fenomeno che sta segnando da qualche tempo una riconoscibile direzione di ricerca anche all’interno della scena italiana.

Negli ultimi anni, infatti, una fitta serie di mostre, numerosi progetti di residenza, qualche intervento pubblico e sempre più frequenti convegni e giornate di studio hanno portato in primo piano in Italia il discorso ecologico dell’arte, che si è nutrito anche dell’esperienza di alcune figure esemplari. Tra queste quella, come poche carismatica, di Joseph Beuys, artista sciamano e ambientalista secondo il quale La rivoluzione siamo noi, scultore sociale e «botanico» di cui tanto si è scritto e si è visto negli ultimi anni in Italia grazie a mostre e convegni che hanno confermato il carattere profetico della sua ricerca; Beuys, autore, tra l’altro, del visionario progetto Difesa della natura realizzato in Abruzzo negli anni ottanta.
La rinnovata attenzione ai temi dell’ambiente ha però comportato non soltanto la riflessione critica su alcune pratiche artistiche del passato e una più insistita attenzione ai temi ecologici da parte degli artisti ma anche – ed è questo il dato più interessante – gli orientamenti delle istituzioni museali e degli spazi espositivi, dando vita anche in Italia a un vivace dibattito sulle politiche di sostenibilità ambientale di musei e gallerie. È proprio di questi giorni il manifesto di economia circolare con cui Carlo Ratti, curatore della prossima biennale di Architettura, invita tutti i partecipanti della rassegna veneziana a realizzare padiglioni improntati alla sostenibilità e a un «audace» pensiero circolare: una proposta che s’inserisce in un processo di revisione dei costi ambientali delle attività espositive che sta progressivamente coinvolgendo i nostri musei.

Michael Fliri, «My private fog II», 2017, courtesy l’artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano, foto Rafael Kroetz

Se è fin dalla sua apertura al pubblico, avvenuta nel 2008 con la mostra Ecosoft Art, che il PAV – Parco Arte Vivente di Torino si definisce , per citare le parole del suo ideatore, l’artista Piero Gilardi, «un parco d’ecologia ambientale, sociale e mentale», non un «contenitore che si accontenti di ospitare dei progetti e delle esposizioni, ma un modello di sviluppo sostenibile e durevole», più di recente anche istituzioni dalla vocazione meno dichiaratamente sperimentale si stanno muovendo nella direzione di una maggiore attenzione al costo energetico delle proprie attività. È questo il caso, a Roma, della Galleria Nazionale di Arte Moderna, che nel 2017 ha intrapreso con la direzione di Cristiana Collu un processo di transizione ecologica che ha fatto della galleria un museo «carbon neutral» certificato, un risultato non scontato per un museo ospitato in un edificio storico. In Italia l’istituzione che dalla sua apertura rappresenta un punto di riferimento per le strategie di sostenibilità ambientale è però il MUSE – Museo delle Scienze di Trento, che grazie alle caratteristiche della sua sede, progettata da Renzo Piano, e alle strategie espositive adottate (nel 2022 è stata inaugurata una galleria dedicata agli obiettivi dell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile) si è affermato come un modello per i musei orientati a promuovere forme di produzione, di esposizione e di comunicazione più rispettose dell’ambiente.

Non stupisce, quindi, che nel risvolto di copertina del catalogo della mostra The Mountain Touch Un viaggio nella natura che cura, in corso fino al 17 novembre al MUSE, si legga che il formato è light, tre millimetri in meno dello standard per limitare al massimo lo spreco di carta. Una scelta che non penalizza affatto il racconto, tanto testuale quanto visivo, di una mostra che, proposta lo scorso anno dal Museo Nazionale della Montagna di Torino, è approdata a luglio a Trento in una veste rinnovata.

Tenendo insieme arte e scienza in una combinazione felice e mai didascalica, le opere, tutte recenti, dei diciassette artisti che Andrea Lerda ha raccolto per questa occasione (Paola Anziché, Zheng Bo, Ruben Brulat, Alberto Di Fabio, Michael Fliri, Christian Fogarolli, Lucas Foglia, Fernando Garcia-Dory, Nona Inescu, Zora Kreuzer, Bianca Lee Vasquez, Marzia Migliora, Caterina Morigi, Andrea Nacciarriti, Vera Portatadino, George Steinmann, Peter Stridsberg) non illustrano ma danno forza di visione e intensità di esperienza al lavoro degli scienziati, declinando secondo sensibilità e linguaggi diversi, mai ingenui, l’urgenza di restituire voce alla natura, di consentire alla montagna di guarirci. La necessità di «adottare un nuovo paradigma» nella relazione tra uomo e natura è quindi il movente di opere che senza condividere soluzioni formali – c’è l’ambiente immersivo, una Green Room, di Kreuzer, le foto della serie Human Nature di Foglia, la scultura morbida di Anziché – sanno intessere un discorso coerente e accessibile.
Accolto dall’installazione «domestica» di Stridsberg, che sottolinea e affronta la «sindrome da deficit di natura», il pubblico del MUSE, non necessariamente avvezzo alle proposte dell’arte contemporanea, si muove senza timore o reverenza tra gli oggetti, le immagini, i dispositivi e, sulla scorta dell’esperienza sempre dinamica che il museo di Trento offre, non mostra esitazione nell’attraversare e attivare le opere, indagandone con pazienza le ragioni e i racconti più segreti. Ha per esempio bisogno di concentrazione il lavoro di Migliora, una ulteriore tappa della serie Paradossi dell’abbondanza, che l’artista ha realizzato in dialogo con Massimo Bernardi, paleobiologo del MUSE, e con Alice Labor.

È un’intricata cartografia in cui si leggono i percorsi sottili che conducono l’acido tartarico, presente nell’uva e attivo nel vino, dalla terra al nostro corpo e, ancora, alla terra, in un fluire ininterrotto che sottolinea quanto il vivente sia, in tutte le sue forme, correlato ai ritmi della natura. Perché alla fine l’obiettivo condiviso dagli artisti e dagli scienziati coinvolti in The Mountain Touch è, nelle parole di Lucy Jones, autrice di Losing Eden, «guarire la nostra disconnessione dalla Terra».

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