Una scena da "En mode marron"
Una scena da "En mode marron"
Visioni

Bintou Dembélé, danzare il «marronage» è un atto di libertà

Incontri La coreografa racconta il suo nuovo lavoro, a Venezia, «En mode marron». Un rito sulle soggettività negate
Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 25 settembre 2024

«Non mi riconosco nella danza contemporanea, è un altro mondo, con un’altra storia e obiettivi. Spesso ha cercato di assorbire culture popolari come l’hip hop e le danze afrodiscendenti. Temo che la specificità di queste culture, la storia di cui sono espressione e l’abbondanza creativa a cui hanno dato origine, ma anche la violenza che spesso queste popolazioni subiscono ancora oggi, vengano annegate in un’altra storia».

Bintou Dembélé, artista franco- senegalese tra le più significative della scena hip hop francese, dopo anni di coreografie e curatela, torna sulla scena in Italia, a Venezia, con En mode marron (27, 28 settembre, Atrio di Palazzo Grassi, ingresso gratuito) performance inedita, rito che esplora le memorie corporee di soggettività negate, raccontate sempre con parole altrui.

Un rito che sarà preceduto da una nuova versione a porte chiuse del suo Rite de passage – solo II, eseguita dal danzatore Meech Onomo presso la Casa di Reclusione Femminile della Giudecca nell’ambito del Padiglione della Santa Sede alla Biennale Arte 2024. Abbiamo sentito l’artista prima del suo arrivo a Venezia.

Quanto l’hip pop e l’underground hanno influenzato il suo percorso?

Ho iniziato dalla metà degli anni Ottanta, avevo 10 anni. L’hip hop era una cultura popolare che mescolava danza, musica e graffiti, simile alle culture che conoscevo che s’intrecciavano nei sobborghi dell’Ile de France dove vivevo. Mi sono nutrita di tutta questa pluralità, sorgente sempre viva di nuove forme e movimenti artistici. Abbiamo vissuto la strada, il suo ventre, i club. Erano gli spazi in cui potevamo esprimerci, incontrarci,crescere.

Ha sempre lavorato con un approccio multidisciplinare, rompendo le categorie tra le diverse arti.

Nelle culture popolari, in particolare in quelle del Sud, danza, musica e voci sono sempre insieme. La cultura accademica ha isolato queste pratiche. L’hip hop ha reso visibile questo aspetto. La forza dell’azione della cultura di strada è proprio questo intreccio tra danza, musica e voci e dimensioni rituali che si ritrova in tutte le culture popolari e del sud del mondo. Questa tendenza, diffusa oltre l’Atlantico attraverso gli schiavi, oggi si può ritrovare nel Gwo-Ka in Guadalupa, nelle danze afro-brasiliane. Con questa consapevolezza ho sentito il bisogno di allontanarmi dalla cultura collettiva specifica dell’hip hop per costruire un approccio più personale. L’ispirazione viene da lontano, ripercorre la storia coloniale fino alle periferie con tutte le loro culture e mescolanze che Edouard Glissant chiamava «creolizzazione». Da allora nella mia ricerca sono spesso andata avanti e indietro, tra collettività e interiorità.

Bintou Dembélé
Bintou Dembélé

Come nascono questi due lavori che porta a Venezia?

Nel 2019, c’è il balletto Les Indes Galantes, che ho coreografato per il 350° anniversario dell’Opera di Parigi. Volevo celebrare il caos in cui ci trovavamo allora in Francia, tra le manifestazioni dei Gilets Jeunes, gli scioperi, le violenze della polizia. Poi ho perso mio padre. Le mie fondamenta sono crollate. Ho sentito il bisogno di creare un assolo, ho deciso di farlo interpretare a Meech, danzatore con cui lavoro da molto tempo. Doveva rappresentare tutto il mio approccio, quello che ora chiamo «Pensiero e danza Marron». Dopo G.R.O.O.V.E del 2023 che ha riunito sul palco 16 danzatori, un cantante e un musicista, avevo bisogno di un momento di silenzio, un terreno incolto che doveva essere rigenerato. La visita alla mostra Ensemble di Julie Mehretu a Palazzo Grassi ha rafforzato questa sensazione. En mode Marron è nato nel contesto di Rite of Passage, alimentato anche dallo scambio con accademici e pensatori. Da quando il mio lavoro si è allontanato dall’hip hop, mi permette di conoscere ambienti diversi, gallerie d’arte, teatri d’opera, spazi di arte contemporanea, qui posso trovare nuove forme di libertà.

Dove c‘è una storia di schiavitù, c’è una storia di libertà riconquistata. Queste storie devono essere raccontate, danno un significato alle culture popolari e di strada

Cos’è per lei il «marronage», come questa nozione si estende alla sua ricerca?

Marronnage deriva da marron, che a sua volta deriva da cimarron (selvatico, in spagnolo): si riferiva agli schiavi in fuga che riacquistavano la libertà. Le parole differiscono da luogo a luogo: si parla di Neg Mawon in Guadalupa, Marron a La Riunione. Quando si riuniscono in comunità, per inventare una vita libera, di solito nelle foreste, vengono chiamati Quilombos in Brasile, e Palenques in Perù. Ovunque gli schiavi hanno tentato di riacquistare la libertà con ogni mezzo necessario. Dove c‘è una storia di schiavitù, c’è una storia di libertà riconquistata: queste storie devono essere raccontate. È importante oggi, dà significato alle culture popolari e di strada, anch’esse sempre alla ricerca della loro libertà di fronte ai tentativi di addomesticamento da parte della cultura di massa. Un numero crescente di artisti sta iniziando a raccontare questa parte della storia per sopperire alla mancanza di testimonianze. M’inserisco in questo movimento: questa storia silenziosa ha generato una grande potenza creativa. Voglio render la figura eroica del marron necessaria nella storia della Guyana francese che risuonaai giorni nostri. Il mio lavoro non si limita alla danza, ma attinge alla multidisciplinarità delle culture popolari, integrata dalla ricerca accademica, con l’obiettivo di sviluppare e celebrare il pensiero e la danza marron, dire e raccontare quello che è stato e che è stato messo a tacere per troppo tempo.

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