A inizio maggio Billy Woods, rapper quarantacinquenne nato a Washington D.C. ma dagli anni Novanta residente a New York, ha pubblicato per l’etichetta indipendente che ha fondato nel 2003, Backwoodz, il suo nuovo album, Maps. Si tratta di un disco hip hop underground in cui i campionamenti pescano dai classici, come jazz e soul, ma anche da altro rap per creare atmosfere sonore per lo più oscure ma non sempre tese. I testi, inoltre, sono pieni di riferimenti culturali non del tutto prevedibili perché se in Soft Landing il rapper cita la collega che negli anni Novanta ha realizzato l’hit 5 O’Clock, Nonchalant, poco dopo ecco comparire in un verso William Burroughs, mentre in Babylon By Bus il duo Shrapknel, ospite al microfono, tira in ballo la serie tv Better Call Saul e Woods, nella strofa successiva, nomina addirittura Lenin.

COLLABORAZIONI
Maps è il secondo lavoro che il rapper realizza con Kenny Segal, produttore musicale residente a Los Angeles, originario del Maryland e già collaboratore dei Freestyle Fellowship, in particolare di uno di loro, Self Jupiter, e di altri rapper come Busdriver e Open Mike Eagle. Il primo disco congiunto dei due, Hiding Places (Backwoodz), è stato eletto tra le migliori uscite del 2019 da molti giornali autorevoli internazionali e Maps, poche settimane dopo la pubblicazione, sembra destinato a ottenere consensi simili. Sono vent’anni che il rapper pubblica musica e nei suoi sedici album e due mixtape ha collaborato con molti musicisti di talento: oltre a Kenny Segal, per rendere l’idea si possono citare Blockhead, Mos Def, Moor Mother, Mike Ladd, Aesop Rock, Quelle Chris, Shabaka Hutchings, Danny Brown, gli Algiers e Vordul Mega. Quest’ultimo, metà dei Cannibal Ox, gruppo chiave dell’hip hop d’avanguardia degli anni Duemila, è proprio un suo amico e, nella seconda metà degli anni Novanta, lo ha spronato innanzitutto a scrivere e poi a rappare la prima strofa. È stato il passo iniziale di un percorso di crescita artistica costante intrapreso da un artista i cui lavori, negli ultimi dieci anni circa, sono puntualmente acclamati, non solo dalla critica specializzata (The Wire compreso) ma anche da testate come Time e New York Times, per esempio. Oggi che i Cannibal Ox sono meno attivi, Woods, El-P (soprattutto con i Run the Jewels) e pochi altri – come Aesop Rock (tra gli ospiti di Maps) – sono le voci che riescono a trasmettere ancora l’energia libera del rap underground di inizio secolo, di quell’epoca d’oro in cui si sperimentava molto su flow, beat e atmosfere sonore con il supporto di una schiera di etichette indipendenti piuttosto attive. Il suo flusso di parole, non a caso, risulta sempre impellente, incalzante, anche sulle produzioni musicali meno tirate.

«LA MIA AFRICA»
Figlio di una professoressa di letteratura, intellettuale e femminista, e di un rivoluzionario marxista dello Zimbabwe – paese in cui ha vissuto buona parte della sua infanzia -, Woods sui social media ha numeri da artista «emergente» e, anche se sulle piattaforme streaming se la cava meglio, non tiene assolutamente il passo di quei rapper che da almeno vent’anni contribuiscono a far stare il loro genere in vetta alle classifiche di vendita di quasi tutto il mondo. Forse per il suo stile che non fa concessioni al pop, forse per i riferimenti storici non proprio comuni presenti nei suoi testi, in cui spesso parla di Africa, forse perché, nell’era dei social, lui non mostra la sua faccia nei video e nelle foto, o forse perché, come fa capire in Remorseless – brano di Aethiopes (2022), uno dei suoi album più belli – non concepisce la musica come mezzo per l’accumulo di beni materiali, pur ammettendo che gli permette di guadagnarsi da vivere.
Lo scorso marzo, Woods, poco prima del nuovo disco con Segal, ha pubblicato anche un piccolo libro di cui ha curato i testi, A Is for Anarchist: An ABC for Activists (Universe Publishing/Rizzoli International), definito una «rivisitazione sardonica» degli abbecedari. Anche in questo caso si tratta di una collaborazione, con la pittrice e fumettista M. Musgrove (come lui residente a New York), ma quello che più conta è come il libro abbia svelato esplicitamente un altro tratto della sua personalità artistica: l’ironia. Bisognerebbe avere sott’occhio anche i disegni ma, per rendere l’idea, basta citare le prime due voci, Anarchist e Billions: «Agli anarchici non piacciono le regole. Agli anarchici non piace nemmeno che gli si dica cosa fare» e «Un miliardo può essere mille milioni, un milione di milioni, ma questo non è un libro di matematica, sappiate solo che è troppo per una singola persona e che parleremo della parola borghesia un’altra volta». Il libro, insomma, gioca sul paradosso di illustrare ai bambini (più che agli attivisti) le nozioni elementari di alcuni concetti che, ragionevolmente, non fanno proprio parte dei loro primi interessi. Potrebbe sembrare un collegamento forzato ma l’operazione, in qualche modo, richiama l’attività di un altro rapper, Childish Gambino – nome d’arte di Donald Glover -, per il semplice fatto che anche in questo caso c’è la capacità di passare dall’impegno all’ironia. Oltre a This Is America, brano del 2018 che parla della violenza e del razzismo negli Stati Uniti e che ha avuto molta eco mediatica anche grazie a un video di impatto pieno di tragici paradossi, l’artista nato in California ma cresciuto in Georgia, infatti, è noto per aver ideato la brillante serie tv Atlanta, che ha debuttato nel 2016 ed è giunta al termine con la quarta stagione alla fine del 2022. Premesso che Glover/Gambino ha iniziato la sua carriera come autore di commedie e si è fatto notare prima di tutto come attore, dunque il suo percorso è differente, per la grande maggioranza del pubblico internazionale a marzo del 2022 era principalmente il rapper di This Is America quando, durante la terza stagione, è andato in onda uno degli episodi chiave per capire il tono della serie. In questa puntata i protagonisti, tra cui lo stesso Glover – che interpreta il manager improvvisato di una star per caso, il rapper Paper Boy, suo cugino -, sono in trasferta a Londra e vengono invitati a una festa privata di un miliardario che ha un appartamento di lusso nascosto dietro la facciata di una casa fatiscente. Qui Darius, il personaggio più «scoppiato» e divertente del trio di afroamericani al centro delle vicende, si avvicina con la sua flemma a una ragazza di origine asiatica ma appena le dice «scusa», lei risponde ridendo «mi dispiace, ho già una relazione» e gli mostra l’anello di fidanzamento. Quando lui, spiazzato, le chiede semplicemente se, per favore, può passargli la bottiglia di gin posta dietro di lei, la ragazza si scusa del fraintendimento per poi aggiungere «sai, molti neri cercano di rimorchiarmi… ho vissuto a Los Angeles e i neri adorano le donne asiatiche». Darius, sempre più perplesso, fa un po’ di ironia sui cliché culturali e lei, andandosene gli dice «sei simpatico». A questo punto un altro invitato alla festa gli si avvicina dicendo che ha sentito il dialogo e stigmatizza il comportamento della ragazza, ma Darius dice di lasciar stare, per lui non è stato «niente di che». Il ragazzo però insiste, gli dice di non minimizzare. Quando, passato un po’ di tempo, dopo altri giri nel grande appartamento, Darius incontra di nuovo il testimone del dialogo, arriva una giovane donna ed esordisce chiedendo «è lui il ragazzo?»; Darius non capisce ma poi un altro degli invitati aggiunge «abbiamo sentito cos’ha detto quella». La voce su quel dialogo, insomma, si è diffusa in tutta la festa a netta predominanza bianca e chiunque inizia ad avvicinarsi a Darius per chiedergli scusa, dicendo che la ragazza è stata vergognosa, offendendola, e addirittura c’è chi piange all’idea di quelle parole. Quando questo gruppo, sempre più folto, individua la ragazza che ha detto quelle frasi, le va incontro in maniera aggressiva, insultandola in coro. Darius rimane al suo posto, sempre flemmatico, fin quando un ragazzo, che sembra originario del subcontinente indiano, gli si avvicina dicendo «sai, il senso di colpa dei bianchi». La ragazza, si scoprirà, è la fidanzata della persona che ha accolto Darius e gli altri alla festa e che, venuto a conoscenza del dialogo incriminato, dichiara di voler interrompere la loro relazione aggiungendo: «Sua madre può marcire in Corea del Nord!».
Anche in questo caso mancano le immagini, quindi le espressioni, le posture, i ritmi, le pause, i look e, per giunta, si tratta del riassunto scritto di una parte di un solo episodio che non può restituire appieno l’atmosfera di tutta la messinscena. In ogni caso, si possono intuire i toni e le direzioni del racconto di Glover, di nuovo pieno di paradossi.

IMPEGNO E IRONIA
Nel rap non sono una novità né l’impegno – come noto – né tanto meno l’ironia ma difficilmente coesistono, dunque, al netto delle differenze stilistiche tra Woods e Glover, non sembra un caso che siano stati scelti un libro e una serie tv per esprimere insieme ed esplicitamente queste due inclinazioni. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta abbiamo assistito a una fusione di queste vocazioni quando è emerso il talento da intrattenitore esuberante di Flavor Flav dei Public Enemy, gruppo simbolo dell’impegno e dell’antagonismo: negli show dal vivo era lui l’anima giocosa del gruppo, il giullare che con il look, le movenze e il tono della voce, sdrammatizzava l’intransigenza di Chuck D. Si trattava proprio del gioco degli opposti, il contrasto tra la solennità del frontman e la leggerezza di questo bizzarro «MC ombra» (come lo ha definito David Foster Wallace nel suo saggio scritto con Mark Costello, Il rap spiegato ai bianchi, uscito negli Stati Uniti nel 1990 e in Italia nel Duemila per Minimum Fax). Magari Flavor Flav non è mai stato così leggero da diventare il rapper preferito di un mafioso italoamericano, come si vede in Ghost Dog-Il codice del samurai, ma questa stessa gag del film di Jim Jarmusch del 1999 che vede il malvivente in un momento intimo in bagno ballare e ripetere a memoria i versi «egotrip» di Cold Lampin’ with Flavor (1988), uno dei pezzi del gruppo in cui figura solo la voce di Flavor Flav, aiuta a capire il modo in cui il Nostro è passato alla storia. Ecco, i toni del rap di Billy Woods hanno una solennità non così distante da quella di Chuck D: la prima voce dei Public Enemy è senza dubbio più dura e i suoi versi hanno un taglio molto più militante ma la serietà dei testi non è così differente. Nel libro A Is for Anarchist: An ABC for Activists, lo spirito dissacrante di Woods ricorda, invece, un po’ quello di Flavor Flav, anche qui con le dovute differenze. Il caso di Glover/Gambino continua a essere un po’ diverso perché lui ha scritto anche qualche testo umoristico, soprattutto all’inizio della sua carriera musicale, come Bonfire, ma non era ancora, appunto, l’artista che è diventato in questi ultimi anni: come detto il suo percorso artistico è piuttosto differente da quello di Woods, di certo meno lineare, con This Is America che ha costituito una svolta, quanto meno a livello internazionale.

APPROCCIO INTELLETTUALE
Nella storia dell’hip hop, i rapper hanno scelto spesso toni, linguaggi e pose per disturbare o intimorire il cittadino medio, sia per posa sia per estrazione sociale sia per credo e ideali. A prescindere dalla ragione, senza dubbio appartengono a una tipologia di artisti che, in media, si prendono molto sul serio, specialmente in pubblico. I social media, per forza di cose, hanno aiutato a mostrare anche certi loro atteggiamenti più sciolti, magari anche «intimi» o «privati», in teoria meno spettacolarizzati, ma l’imprinting del personaggio pubblico rude, spavaldo e macho è rimasto in molti, soprattutto se si parla dei rapper che raccontano storie di strada, gli eredi del gangsta rap, oggi molto numerosi anche grazie al successo di sottogeneri quali trap e drill. I rapper consapevoli, però, al contrario, sono sempre sembrati più aperti a svelare anche gli aspetti meno canonici attribuiti normalmente agli artisti hip hop, tra cui, per fortuna, anche l’ironia. Non è automatico che la consapevolezza corrisponda all’impegno né, tanto meno, alla militanza, chiaramente: è semplicemente un approccio in cui la coscienza può portare ad avere un punto di vista critico, a condividere in un brano rap storie ordinarie e aspetti comuni a molte persone dandogli un taglio sagace o, addirittura, dei risvolti formativi. Woods rispecchia solo in parte queste caratteristiche appartenenti a quasi tutti i rapper che hanno scelto la consapevolezza perché lui, rispetto alla media, è anche piuttosto colto e ha un approccio intellettuale, dunque i suoi testi sono difficili da capire appieno per gli stessi madrelingua inglesi. Per giunta ha scelto di far scorrere le sue parole su musiche non proprio convenzionali, underground appunto. Insomma, la musica di Woods può spiazzare o, in altre parole, costringere a farsi delle domande, ragionare, informarsi, indagare ed è in questo senso che risulta un tipo di rap quanto mai consapevole. A maggior ragione, quindi, l’ironia e la semplicità del libro che ha realizzato insieme a M. Musgrove permettono di avere una visione di Woods meno inquadrata, più ampia. E a chi proprio non riesce ad associare tutte queste sue caratteristiche con il prototipo del rapper, viene in soccorso proprio la breve biografia stampata in calce al A is for Anarchist in cui si legge che Woods è «un uomo a suo agio con le contraddizioni». È difficile che questa dimensione di rapper colto e acclamato dalla critica – che pare ideale per un artista come Woods – duri ancora molti anni, ma è possibile che si abbia a che fare con un artista che, come El-P, riuscirà a rinnovarsi anche di fronte ai probabili grandi cambiamenti del mercato che, ciclicamente, scombussolano tutto. Essere abituati a stare sottotraccia così come essere molto propensi a collaborare con altri artisti o capaci di dedicarsi ad altre arti senza perdere credibilità sono tutte qualità che aiutano anche ad affrontare i nuovi scenari con molte meno preoccupazioni rispetto a chi sta in cima alle classifiche ed è concentrato prima di tutto sul marketing o sull’orecchiabilità del ritornello. Può sembrare un altro paradosso ma spesso va così.