Rinunciando alle consuete ricette della discografia a rilascio graduale, Billie Eilish ha preservato fino alla fine l’integrità del suo nuovo album Hit Me Hard And Soft (Darkroom/Interscope Records). Non un singolo d’apertura, centellinati gli antipasti per la stampa, i pochi indizi desumibili dalle sue stesse dichiarazioni avevano lasciato intendere che non sarebbe stato esattamente «un disco che parla di felicità»; piuttosto una raccolta di «barlumi sull’intera esperienza umana» di una ventiduenne alla ricerca dell’adolescente pre-ribalta. Progetto maturo dove l’artista si interroga sull’«esperienza umana»
«The old me is still me and maybe the real me», canta con un filo di voce in Skinny, traccia d’apertura con cui elabora non soltanto delusioni amorose, ma la stessa percezione di sé e del suo destino mediatico. Ancor più di quelli dei precedenti When We All Fall Asleep Where Do We Go? (2019) e Happier Than Ever (2021), questo incipit niente affatto discogenico assume funzione inedita proprio per il fatto di essere il primissimo impatto con un lavoro svelato in blocco e in contemporanea. Un’ouverture a sipario chiuso che racchiude in sé temi e sviluppi comuni a tutto l’album, benché questo sembri prendere subito la via dell’alta classifica con Lunch.

SARÀ per l’immagine subacquea in copertina, ma della produzione — curata come al solito dalla Eilish assieme a suo fratello Finneas — colpisce la volontà programmatica di equalizzare e filtrare il suono in modo da creare una continua alternanza di apnea ed emersione. E da lì, è un attimo arrischiarsi in letture psicanalitiche. Perché non si tratta solo di chitarre impregnate di chorus e batterie a dir poco ovattate; è la stessa voce a venir coinvolta in questo moto ondoso. La resa vocale di Billie è trattenuta, non raggiunge quasi mai il tutto tondo nel gioco figura-sfondo del mix, accontentandosi volentieri del bassorilievo, quando non è proprio sommersa come in Chihiro (2’03”) e The Diner.
Si accovaccia sul suo registro inferiore, predilige il sussurro e non fa nulla per camuffare il respiro. Per darsi forza raddoppia, quadruplica la voce principale con armonizzazioni e linee secondarie anch’esse in bassissimo rilievo (si ascoltino i controcanti di Wildflower). È solo nei refrain che si concede di cantare con voce piena, raggiungendo il climax su Birds Of A Feather e The Greatest. Ma anche nel registro alto la voce si incrina leggermente, e spesso lo fa sulle parole chiave «crying» (Skinny 1’53”) e «lying» (L’Amour De Ma Vie, 1’40”). In quest’ottica reclamano significati anche l’autotune di Chihiro e la maschilizzazione finale di Blue, brano di chiusura significativo quasi quanto l’incipit.

DEL QUALE, infine, va notata la scelta formale e anch’essa programmatica, fatta di code e svolte inattese che stravolgono l’atmosfera iniziale (con archi improvvisi, silenzi o modulazioni armoniche) anche in canzoni come L’Amour De Ma Vie, Bittersweet e la stessa Blue. Ma sono tutti colpi di scena a sipario chiuso e, così come il prologo, il finale rimane sospeso, appena sotto il filo dell’acqua.