Bill Viola, contemplare la vita nello specchio del video
Icone Addio all’artista newyorkese, un pioniere della sperimentazione intermediale, aveva settantatre anni. I primi lavori e l’incontro con la filosofia zen, il rapporto con il Rinascimento, l’acqua e gli elementi naturali
Icone Addio all’artista newyorkese, un pioniere della sperimentazione intermediale, aveva settantatre anni. I primi lavori e l’incontro con la filosofia zen, il rapporto con il Rinascimento, l’acqua e gli elementi naturali
L’ultima volta che Bill Viola è venuto in Italia è stato nel marzo 2017, quando a Palazzo Strozzi è stata allestita la sua personale Rinascimento elettronico, dove le sue installazioni video più famose sono state riproposte in dialogo con alcuni capolavori dell’arte italiana del XV e del XVI secolo. Quella stessa Firenze dove l’artista nei primi anni ’70, poco più che ventenne, aveva soggiornato come cameraman per l’atelier Art/Tapes 22 di Maria Gloria Bicocchi, lo aveva accolto tributandogli un omaggio. In quell’occasione l’artista rivide vecchi amici ritornando alle radici della sua creatività. Nato a New York il 25 gennaio 1951 da genitori di origine italiana, Viola (e non «Vaiola» come molti lo chiamano) tra il 1969 e il 1973 aveva studiato alla Syracuse University laureandosi in Visual and Performing Arts, interessandosi anche alla musica elettronica e soprattutto cominciando a realizzare i primi videotapes. Tra di essi Wild Horses (1972), Information (1973), Eclipse (1974) o Red Tape (1975). Ma, contemporaneamente, concepisce i primi lavori installativi quali Walking Into the Wall (1973), Localizations (1973), Peep Hole (1974) o Trapped Moments (1974), grazie ai quali si distingue come uno dei videoartisti più interessanti della scena americana.
È alla fine degli anni ’70, con piccoli capolavori come Chott El-Djerid (A Portrait in Light and Heat)(1979) e The Reflecting Pool (1979) che si afferma a livello internazionale, partecipando a festival ed esposizioni. Dagli anni ’80 vince varie borse di studio, tra cui una di Sony che gli consente di lavorare in Giappone, avvicinandosi al buddismo zen. L’incontro con la cultura orientale sarà determinante per la sua arte e per la sua maturazione esistenziale.
NELL’ARCO di un decennio realizza in formato elettronico due mediometraggi e un lungometraggio sperimentale: Hatsu Yume (First Dream)(1981), I Do Not Know What It Is I Am Like (1986) e The Passing (1991). Questi film ci restituiscono la sua dimensione di cineasta oltre che di artista, ma soprattutto sintetizzano bene la relazione tra Io/Mondo. Nel primo Viola fonde l’osservazione personale della cultura giapponese con una contemplazione della vita, della morte e della natura, raggiunte attraverso un’esplorazione simbolica della rapporto tra l’immagine video e la luce in quanto costrutto metafisico. Il secondo – il cui titolo si ispira a un concetto del libro sacro dei Rig-Veda – è una suggestiva e potente riflessione mistico-antropologica sul regno animale, umano e vegetale e sulla capacità da parte dell’artista stesso (che si mette in scena mostrando anche il medium e il processo creativo) di immergersi nella realtà interiore mediante la contemplazione del mondo circostante. Ancor più personale è il terzo film, composto da frammenti, sequenze liquide (girate sott’acqua) e notturne (con una camera a infrarossi), che affiorano da uno stato di sonno/veglia, in bilico tra la vita (la nascita del figlio) e la morte (la malattia terminale della madre).
MA È NEL 1995, anno in cui espone al padiglione degli States della Biennale di Venezia che, dopo essere stato per due decenni relegato nell’ambito della sperimentazione elettronica, Viola raggiunge grande notorietà nel sistema dell’arte. Da questo momento si dedica esclusivamente alle installazioni, basate spesso, come nel caso di The Greeting (1995) – ispirato alla Visitazione del Pontormo – su tableau vivant che rielaborano opere pittoriche famose o su composizioni rallentate migliaia di volte in modo da creare uno scarto minimo tra stasi e movimento, alterando la percezione e giocando sull’attesa dello spettatore. Viola sviluppa sempre un tema o un motivo narrativo, ma soprattutto ricerca un coinvolgimento emozionale da parte di chi osserva l’opera.
Pensiamo a Going Forth by Day (2002), percorso visivo scandito in cinque «quadri» o sequenze (sincronizzate e ripetute a loop) che costituiscono un film spaziale di 35 minuti. Lo spettatore può entrare fino in fondo nella dimensione luminosa che l’artista crea con sapienza, attraversando i vari stadi di un viaggio iniziatico coincidente con il ciclo delle stagioni. In questo senso possiamo dire che Viola ha realizzato in pieno l’idea di expanded cinema teorizzata da Gene Youngblood: 1) portando l’immagine oltre i confini dello schermo; 2) lavorando sull’intermedialità; 3) espandendo la coscienza del fruitore.
È SCONTATO DIRE che tutte le installazioni dell’artista newyorkese sono intrise di spiritualità. Alcune rimandano esplicitamente alla dottrina religiosa e a quella del buddismo tantrico in particolare: Bodies of light (2006) mette in scena – mediante un dittico di schermi al plasma – la dissoluzione del corpo attraverso un processo di morte e rinascita. Four Hands (2001), articolato in 4 schermi piatti di piccole dimensioni, presenta una serie di gesti delle mani al rallentatore che si rifanno ai mudra buddisti. Gli elementi naturali (il fuoco, ma soprattutto l’acqua) costituiscono una delle ossessioni ricorrenti nell’estetica di Viola. Pensiamo a The Crossing (1996): due schermi dorso a dorso sospesi in uno spazio buio, ripropongono la stessa figura umana, da un lato avvolta dalle fiamme e dall’altro investita da un getto d’acqua. Le due forze naturali non sono solo distruttive, ma simboleggiano la catarsi e la rinascita. Un tema questo che ritorna costantemente in altre opere di Viola, dove al centro c’è l’acqua, perfetta metafora del passaggio dalla vita alla morte: Departing Angel (2001), Emergence (2002) – che riprende iconograficamente il soggetto quattrocentesco della «deposizione» – o l’ancor più suggestiva Ocean Without a Shore, allestita nella chiesa di S. Gallo durante la Biennale di Venezia del 2007: lo spettatore, circondato da tre pale d’altare elettroniche, vede materializzarsi davanti ai suoi occhi presenze che oltrepassano la soglia dell’aldilà segnalata da uno scroscio d’acqua. In un’altra bellissima opera a doppio schermo, Surrender (2001), l’acqua – elemento che allude al battesimo – accentua il legame tra immagine elettronica e immagine riflessa, reale e virtuale.
NEGLI ULTIMI vent’anni Viola è stato celebrato un po’ ovunque. Nel 2003 ha allestito una personale al Paul Getty Museum di Los Angeles dal titolo The Passions. L’anno successivo l’incontro con il drammaturgo inglese Peter Sellars lo ha portato a realizzare la parte video dell’opera Tristano e Isotta. Un’altra significativa retrospettiva gli è stata dedicata nel 2006 a Tokyo con il titolo del suo film Hatsu Yume. Un’altra grande sua personale è stata allestita al Grand Palais di Parigi nel 2014. Purtroppo l’Alzheimer che lo ha colpito negli ultimi cinque anni gli ha impedito di realizzare nuovi lavori e le sue mostre in giro per il mondo sono state seguite dalla sua compagna di vita Kira Perov. Ma la morte di Viola è solo fisica, tutta la sua opera celebra il passaggio da uno stato della materia all’altro e continuerà a ricordarci – ancor più attraverso il supporto effimero e volatile delle immagini elettroniche – che nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma.
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