Bill Viola, acqua, mimica, archetipi: il best degli straniamenti
Bill Viola, Fire Martyr, 2014, performer Darrow Igus, foto Kira Perov © Bill Viola Studio
Alias Domenica

Bill Viola, acqua, mimica, archetipi: il best degli straniamenti

A Milano, Palazzo Reale Dodici opere-video 1995-2014, da «The Greeting», ispirato a Pontormo, a «Water Martyr»: il piano riassunto di una vicenda formale all’insegna della nudità iconica e della lentezza
Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 giugno 2023

Capitano a volte, nelle vite degli artisti, episodi o incidenti che assumeranno inevitabilmente un ruolo preponderante nella costruzione del loro mito. Penso ad esempio a Joseph Beuys, precipitato in aereo tra gli sciamani tartari della Crimea, che in quell’incidente vide l’inizio del suo percorso artistico. Se volessimo trovare un fatto, nella vita di Bill Viola, dall’analogo peso mitopoietico, quello potrebbe essere senz’altro l’annegamento sfiorato all’età di sei anni, di cui l’artista narra sovente nelle sue interviste. Una presenza dell’acqua così urgente è lì a testimoniarlo nella maggior parte dei suoi lavori, permettendo una profondità di lettura che va ben oltre le canoniche chiavi interpretative psicologiche e antropologiche.

E l’elemento acquatico ritorna insistentemente in molte delle dodici opere video di Viola esposte, fino al 25 giugno, nella mostra di Palazzo Reale a Milano, a cura di Kira Petrov, moglie dell’artista, e di Valentino Catricalà. Si tratta di opere non inedite realizzate negli anni tra il 1995 e il 2014, e in cui l’artista ha definito e declinato il canone del suo linguaggio maturo, e per il quale il suo lavoro è oggi apprezzato e universalmente riconoscibile, sia dal punto di vista della estrema pulizia formale, sia da quello dei soggetti. Viola attinge a piene mani alla tradizione visiva, intellettuale e spirituale occidentale, tanto quanto da quella orientale, e compone i video mirando a coinvolgere lo spettatore in una riflessione su temi archetipali e profondamente umani.

L’acqua è soglia in Ocean Without a Shore (2014), dove l’esistenza di alcuni personaggi oscilla attraverso un tempo allucinatoriamente dilatato tra l’informe e l’ultranitido, da un lato e dall’altro di uno schermo d’acqua, metafora della presa di coscienza tra la morte e la vita e quasi rappresentazione visibile dei versi del poeta sufi Ibn Al’Arabi «Il Sé è un oceano senza riva. Se guardi non ha inizio né fine, in questo mondo e nell’altro». Oppure è acqua violenta in The Raft (2004), squassante la quieta tranquillità di un gruppo di uomini e donne, e dunque sottolineandone la fragilità fisica e esistenziale. Ma può diventare anche, naturalmente, veicolo di rinascita (Emergence, 2002), o di ascensione (Tristan’s Ascension, 2005), o dispositivo di martirio (Water Martyr, 2014). Alla base vi sono suggestioni culturali che vanno dall’acqua come simbolo universale di rinascita e purificazione, fino all’acqua fons et origo che precede ogni forma, tema sviluppato da Mircea Eliade, e alle divagazioni psicanalitiche di Bachelard. E, sebbene più dissimulata, potremmo ritrovare la presenza dell’acqua anche nei video focalizzati sulle passioni umane, interesse coltivato da Viola partendo dalla tradizione occidentale della patognomica, e dunque dal sistema teorico degli umori ipotizzato sin dai tempi di Ippocrate e Galeno.

Già, perché il tema dei sentimenti umani espressi attraverso la mimica del viso e del corpo, in particolare moti di afflizione, stupore, paura, è un altro grande leit motiv della ricerca dell’artista e ha visto il suo punto apicale nella sua partecipazione al seminario di ricerca Representing the Passions tenutosi nel 1997-’98 al Getty Research Institute di Los Angeles. La minuta attenzione su ogni singolo micro-movimento espressivo dei performer e l’uso del ralenti esasperato nei suoi video, cifra stilistica tipica di Viola, sono complementari: rallentando il tempo al punto di perdere e quasi annullare la continuità del movimento, si dà allo spettatore il tempo necessario per indugiare su ogni più minuto passaggio che quel movimento contribuisce a formare, costruendo una sensazione di disorientamento dovuta anche alla decontestualizzazione di quelle passioni, di cui non viene spiegata o mostrata la causa.

Si tratta di una strategia che Viola utilizza tanto in The Quintet of the Silent (2000), memore dei tanti studi di espressioni dal Rinascimento in avanti a partire dalle teste grottesche di Leonardo, quanto nel misterioso The Greeting (1995), in cui invece il riferimento di partenza, la Visitazione di Pontormo, conduce alla rappresentazione di un incontro di tre donne in cui il codice semantico della mimica facciale diventa completamente indecifrabile, gettando chi guarda nella dimensione dello straniamento.

È evidente il debito nei confronti dell’arte rinascimentale che grava sull’opera di Viola, arte che egli ha potuto frequentare nei musei losangelini come anche durante un soggiorno di diciotto mesi in Toscana avvenuto nel 1973 – ricordiamo peraltro le sue origini italiane. Le opere esposte, quando non citano esplicitamente la fonte – Pontormo per The Greeting, il Cristo in Pietà di Masolino da Panicale per Emergence – tradiscono un portato più sostanziale dell’arte sacra occidentale, manifesto nella scelta dei formati degli schermi video, ora alludenti alle predelle con le storie dei santi, come in Catherine’s Room (2001), ora alle pale d’altare, e si veda il monumentale Tristan’s Ascension (2005).

D’altra parte è bene ricordare che i tre schermi di Ocean Without a Shore, al debutto dell’opera nel 2007, erano posizionati sui tre altari della chiesetta di San Gallo a Venezia, mentre, qualche anno più tardi, fu la St. Paul Cathedral di Londra a ospitare la serie dei martiri degli elementi presente in mostra.

A un peso rilevante della cultura visiva e filosofica occidentale nel definire molta parte della ricerca di Viola, corrisponde però una forte impressione che l’Oriente ha esercitato sul pensiero dell’artista, evidente nei continui riferimenti a un tempo circolare, a una continuità che implica una coincidenza degli opposti, o alla realtà come mera apparenza e illusione: se l’opera Four Hands (2001), nel riassumere posizioni espressive delle mani, guarda ai mudra del buddismo prima ancora che ai chirologi secenteschi o alla mimica gestuale di François Delsarte, con i fantasmi baluginanti di The Veiling (1995), sembra il velo di maya mutuato dall’induismo a supportare la poetica dell’opera più potentemente di quanto non faccia il mito della caverna platonica.

Ma c’è un ultimo motivo per cui vale la pena visitare questa che potremmo definire una sorta di mostra The Best of di Bill Viola, al di là della sua allure colta, e della tensione mistica e spirituale che le opere silenziosamente trasmettono, e persino della accattivante deliziosità estetica delle immagini dei video, sempre inscritte in un rigore quasi aureo. È la lentezza dell’attenzione che le opere esigono per stare al loro passo: di questi tempi non è poco.

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