Bill Frisell e la dinamica perfetta
Note sparse Una riflessione sul suonare in trio. È questo «Valentine», l’ultimo lavoro pubblicato dal grande chitarrista jazz
Note sparse Una riflessione sul suonare in trio. È questo «Valentine», l’ultimo lavoro pubblicato dal grande chitarrista jazz
Una riflessione sul suonare in trio. È questo, in estrema sintesi, Valentine, l’ultimo lavoro pubblicato da Bill Frisell per Blue Note. È già arduo conservare l’inventiva lungo un percorso discografico che conta qualcosa come 42 lavori in studio in 37 anni. Figuriamoci farlo con un album composto quasi interamente da brani rivisitati. È proprio nella scelta dell’organico, nell’appassionata esplorazione delle possibilità del trio, che va individuata la cifra creativa di quest’opera.
Valentine fotografa l’alchimia di tre musicisti — oltre a Frisell, Thomas Morgan al basso e Rudy Royston alla batteria — al culmine di due intensi anni di tour. Il lungo rodaggio live — in attesa di ripartenza — fa dell’album un perfetto esempio di interplay, trasfondendo in studio la freschezza del palco e rinnovando un repertorio in gran parte già edito. Non soltanto per le numerose riletture, da Wagon Wheels a What The World Needs Now Is Love della premiata ditta Bacharach-David, fino all’opening track, Baba Drame del maliano Boubacar Traoré, già reinterpretata dal chitarrista in The Intercontinentals (Elektra Nonesuch, 2003). Bill continua a rinnovarsi senza l’ansia di reinventarsi. Ripropone il suo agglomerato stilistico con quella liricità che è marchio di fabbrica di un fraseggio tra i più intelligenti e sensibili nel panorama chitarristico contemporaneo.
ALL’ASCOLTATORE viene ancora assicurata la sorpresa, attraverso quei motivi che partono con pronuncia indiscutibilmente jazz per poi trovare approdo e risoluzione in ben altri vocabolari. Inflessioni diverse a mitigarsi l’un l’altra. Laddove i segni dell’avanguardia — una dissonanza, un cluster, una corda a vuoto lasciata impunemente vibrare — sembrerebbero predominare, ecco l’autorità del folk americano a bilanciare la ricetta. Una dinamica esemplificata in due tracce. Si ascolti il brano che dà il titolo al disco, quell’incedere jazz-blues di chiaro sapore monkiano, quei persistenti intervalli di seconda che vietano ogni consonanza. Si passi poi a Where Do We Go, portavoce del lato più acustico di Frisell, dei suoi voicing più sobri e ariosi. Andamento comune a tutto l’album, godibile solo con un ascolto attento e ripetuto. Una regola che vale la pena ribadire, nell’epoca della riproduzione casuale.
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