Visioni

Biennale, sotto il segno di un mondo in bianco e nero

Biennale, sotto il segno di un mondo in bianco e nero«Crisalidi» di C. Gallorano, courtesy La Biennale di Venezia, foto di Andrea Avezzù

A teatro Ultimo atto della direzione artistica di Ricci e Forte per il festival ora sotto la presidenza di Buttafuoco

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 22 giugno 2024

Dopo lo spettro di colori primari  esplorati negli scorsi anni, sta sotto il segno della radicale dicotomia di un mondo in bianco e nero il festival della Biennale teatro in corso negli spazi dell’Arsenale veneziano. Ultimo della direzione artistica di Stefano Ricci e Gianni Forte e primo sotto la presidenza di Pietrangelo Buttafuoco. Niger et albus campeggia sulla nerissima copertina del catalogo. Il buio e la luce. Lo Yin e Yang dell’antica filosofia cinese. Simboli di volta in volta di una opposizione o di una complementarità, spesso non facili da districare. E lo dimostrano bene i due lavori scelti per l’inaugurazione. Bianca ci appare la Creation del collettivo berlinese Gob Squad, premiato con il Leone d’argento per una carriera che ha raggiunto i trent’anni di vita all’insegna della «life art», intesa come commistione di arte e vita reale con grande uso di tecnologia audiovisuale e ambientazioni non convenzionali.

Presentati «Creation» dei Gob Squad e «Crisalidi» di Ciro Gallorano

AVVOLTA nell’oscurità è invece Crisalidi, l’emozionante creazione di Ciro Gallorano, vincitore a sua volta della Biennale college come regista under 35. Assai chiacchierata la prima, che vede in scena sei ospiti locali accanto a tre esponenti dell’ensemble (e dunque destinata a essere ogni volta diversa al cambiare del luogo di rappresentazione); quanto non ha bisogno di parole il lavoro di Gallorano, che si sviluppa nel confronto fra i corpi delle due interpreti e le immagini di Francesca Woodman, fotografa statunitense suicida nel 1981 a ventidue anni.
Pictures for Dorian è il sottotitolo di Creation. Con evidente riferimento al Dorian Gray di Oscar Wilde e a quel suo ritratto, qui evocato dalle tante cornici di ogni dimensione che circolano sulla scena a inquadrare il «materiale» dello spettacolo, come lo chiamano loro. Ovvero i sei ospiti veneziani. Suddivisi in due sottogruppi di generazioni diverse, a rappresentare il passato e il futuro sul presente della scena. Ma prima viene la presentazione del tema, per così dire. «L’arte rispecchia lo spettatore, non la vita», ancora Oscar Wilde. Per dire che il triangolo rispecchia meglio la complessità del mondo rispetto alle opposizioni binari, il bianco e nero appunto. In questo caso il triangolo formato dall’artista, la sua opera e lo spettatore. Mentre sul fondo l’arte giapponese di sistemare i fiori esemplifica un oggetto artistico che non prevede gerarchie.

«Creation» di G. Squad, courtesy La Biennale di Venezia, foto di Andrea Avezzù

NEL RIQUADRO delle cornici gli ospiti si lasciano mettere in posa, ruotano immobili su piedistalli girevoli, vestono e svestono costumi, mimano il Pensatore di Rodin; i loro corpi riempiono il fondale diventato un grande schermo. Poi poco alla volta prendono coscienza del loro essere personaggi, si espongono con le loro storie di teatro. Qualcuno ormai gigioneggia un po’, fra lampi di Commedia dell’arte. Il gioco dura un po’ a lungo ma lo spettatore si diverte, nel suo posto del triangolo, e non c’è bisogno di citare il sopravalutato volume di Lehmann sul «teatro postdrammatico». Alla fine l’ikebana floreale che doveva appassire sotto le radiazioni di una lampada, è ancora lì. Servirà per la prossima replica.
Ciro Gallorano è campano di origini, di Torre del Greco, ma è cresciuto teatralmente in Toscana dove si è laureato con una tesi sulla nuova drammaturgia italiana. Lo si nota solo perché le scelte performative del giovane regista sembrano andare da tutt’altra parte. Con profitto. All’inizio nell’oscurità c’è una ragazza con un vestitino nero molto leggero, di spalle. Impegnata a ripetere con una corda una sequenza gestuale sempre uguale. Ma questo prologo si interrompe bruscamente. Con fragore si apre a fisarmonica una parete, a delimitare quello che è con evidenza uno spazio interiore. Luogo proibito o rifugio. Dove sono sparsi i relitti di un mondo domestico esploso. Una vasca di ghisa piena d’acqua, una poltrona di legno scuro, molti specchi abbandonati a terra… Ma la parete è porosa. Non riesce a proteggere quel vuoto che forse avvolge un orrore indicibile. Braccia e gambe lo attraversano. Da qualche parte è scivolata dentro un’altra figura femminile con un vestitino a fiori, un’altra immagine di sé che inquieta o accompagna. Poi i vestiti cadono e le due ragazze restano alle prese con la nudità che l’oscurità accarezza.
Chi le conosce ritrova forse le immagini di Francesca Woodman, lo sguardo sul corpo femminile che le pervade e le interroga. Qui alcune sono bellissime, come l’ombra che si forma sulla parete e resta lì anche quando il corpo si è allontanato. Ma non importa davvero, non dipende cioè da quel riconoscimento l’emozione generata dallo spettacolo. Altri, forse non molti ormai, rivedranno le immagini lontane di un alfabeto teatrale mandato a memoria. Immagini che Gallorano e le sue giovani compagne (sono Sara Bonci e Andreyna De la Soledad) non possono aver conosciuto. Quella vasca dove si immerge la protagonista; quella benda avvolta sul viso ad accecarsi… Ma come in quel racconto della mistica ebraica, basta la memoria del racconto per salvarsi. E ci conforta per il futuro del teatro.

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