«Quale spazio è concesso all’immaginazione, al sogno, alle visioni e alle immagini interiori in un’epoca assediata dalle immagini esteriori?», si chiede Massimiliano Gioni, curatore della 55/ma Biennale di Venezia. Una domanda aperta a svariate risposte, tante quante le declinazioni del linguaggio fotografico in ascesa nello scenario dell’arte contemporanea. Anche nel Palazzo Enciclopedico di Gioni c’è, infatti, molta fotografia. Una chiave di lettura è sollecitata proprio dallo stesso criterio di catalogazione che è alla base della mostra, accompagnato da un approccio sistematico e razionale che non azzera l’emozione, la curiosità, la meraviglia. Esattamente questo è il punto di vista di Cindy Sherman che, su invito del curatore, introduce nella sua «wunderkammer» personale le Masquerade dell’Africa Occidentale di Phyllis Galembo (New York 1952). È dal 1985 che Galembo porta avanti anche in veste di collezionista il suo progetto sui «fancy dresses», gli abiti indossati per le occasioni speciali: maschere tribali africane, ma anche costumi di carnevale haitiani o maschere di Halloween. Maske (2010) è anche la sua ultima produzione editoriale. La fotografa è sempre munita della sua inseparabile Hasselblad, del taccuino dove annota sogni minimo dettaglio e dalle forti lampade che impiega per ottenere quelle foto dai colori saturati che sono la sua cifra espressiva. «Sono particolarmente interessata agli indumenti realizzati con materiali della natura come terra, foglie e paglia – spiega –. Tutte le immagini sono state scattate sul posto, anche se a prima vista sembrano fatte in studio. Ogni cosa è originale, dagli indumenti agli accessori. Giro munita di una sorta di studio portabile con le luci, un generatore e cerco sempre un muro, o comunque un fondale neutrale. Avere assistenti del posto mi permette di entrare con più facilità in relazione con i locali, superando spesso la loro reticenza. Chiedo alla gente di posare indossando i loro costumi tradizionali. Non si vede mai il volto, perché in questo contesto non è importante l’identità della persona, ma il suo ruolo sociale. Molte maschere, infatti, sono collegate a divinità, riti o celebrazioni particolari».

Rimanendo in tema di catalogazione e celebrazione in un ambito che oscilla tra rito e moda, nel Palazzo Enciclopedico troviamo il celebre fotografo africano J.D. ’Okhai Ojeikere (Ojomu Emai, Nigeria 1930), interprete della propria cultura attraverso un lavoro sistematico sulle acconciature iniziato nella seconda metà degli anni ‘70. Anche in Nigeria, come in tutto il continente africano, le acconciature femminili sono delle vere e proprie architetture in cui, oltre ai giochi di forme, s’intrecciano significati che sfuggono allo sguardo occidentale. Fotografando quotidianamente in strada e durante le feste ’Okhai Ojeikere ha raccolto oltre un migliaio di immagini che rivelano anche un legame fortissimo con la tradizione dell’arte scultorea del suo paese. «Tutte queste acconciature sono effimere – afferma – Voglio che le mie fotografie ne siano tracce notevoli. Ho sempre desiderato registrare i momenti di bellezza, conoscenza. L’arte è vita. Senza l’arte, la vita sarebbe congelata». Parole che nel suo libro J.D. ‘Okhai Ojeikere. Photographs (2000) accompagnano le annotazioni di ogni singolo dettaglio, raccontando il momento in cui l’acconciatura è stata realizzata, il motivo, la situazione.

Sostenitore del valore delle piccole cose che danno senso alla scansione della quotidianità, Luigi Ghirri (1943–1992) è tra i massimi interpreti della fotografia di paesaggio di cui è un manifesto il suo progetto Viaggio in Italia (1984). Luoghi reali quelli fotografi da Ghirri, con un approccio intellettuale che nel padiglione Italia, curato da Bartolomeo Pietromarchi, dialogheranno in una delle sette stanze con il lavoro di Luca Vitone. La fotografia è un complesso sistema con cui relazionarsi con il mondo per il fotografo emiliano, «nel quale il segno di chi fa fotografia, quindi la sua storia personale, il suo rapporto con l’esistente, è sì molto forte, ma deve orientarsi, attraverso un lavoro sottile, quasi alchemico, all’individuazione di un punto di equilibrio tra la nostra interiorità – il mio interno di fotografo/persona – e ciò che sta all’esterno, che vive al di fuori di noi, che continua a esistere senza di noi e continuerà a esistere anche quando avremo finito di fare fotografia», come leggiamo in Luigi Ghirri. Lezioni di fotografia (2010).

Filmmaker, fotografo e videoartista, il libanese Akram Zaatari (1966) è l’artista scelto dai curatori Sam Bardaouil e Till Fellrath per rappresentare il suo paese. Co-fondatore dell’Arab Image Foundation Zaatari esplora le dinamiche socio-politiche del medioriente (conflitti visibili e invisibili) attingendo costantemente alla memoria. Una memoria personale che diventa patrimonio collettivo. Il passato, conservato ma decisamente non archiviato, è il ponte per cercare di destreggiarsi nel presente e guardare al futuro. «Soggetti differenti, personaggi e figure che, in passato, ho affrontato nel mio lavoro non mi hanno mai lasciato – sostiene Zaatari – Spesso riappaiono nella mia vita e trovano la loro strada per riemergere in altre opere successive. Abitano totalmente la mia immaginazione e mi fanno capire che si riferiscono al mio lavoro in un teatro di possibilità illimitate. Un teatro in cui gli stranieri provenienti da mondi diversi si ritrovano sul palco faccia a faccia».
Per il fotografo Franck Abd-Bakar Fanny (Abidjan, Costa d’Avorio, 1970) che espone nel padiglione dl suo paese (al debutto in Laguna), si tratta invece dell’esatto contrario: è lui lo straniero che si ritrova catapultato in scenari diversi e lontanissimi, geograficamente parlando. Ogni immagine che cattura è un tassello del puzzle che è la sua vita.

L’approccio autobiografico (nel 1985 la guerra civile lo costringe a lasciare il suo paese e da allora emigra in diversi paesi, dal Canada al Bahrain dove risiede attualmente) è anche il punto di partenza per la narrazione che Camille Zakharia (Tripoli, Libano 1962), fotografo e ingegnere, costruisce, interpreta e reinventa utilizzando il collage, la fotografia documentaria e il fotomontaggio. L’insieme caleidoscopico di immagini, volti e luoghi (interni ed esterni), è la proiezione metaforica di un’identità che si va delineando. Il suo portfolio Coastal Promenade è tra i lavori concepiti per Reclaim, prima partecipazione nazionale del Bahrain alla 12. Biennale di Architettura di Venezia, insieme a Bahrain Urban Research Team, LAPA e a Mohammed Bu Ali hanno valso al padiglione il Leone d’Oro nel 2010. Zakharia è ora protagonista di In a World of Your Own con l’artista Mariam Haji e la fotografa Waheeda Malul–lah (Bahrain 1978), con cui il Bahrain partecipa alla sua prima Esposizione Internazionale d’Arte.

Malullah, la cui serie Light è entrata a far parte della collezione di fotografia contemporanea del British Museum di Londra, porta a Venezia A villager day out (2008). Con una notevole giocosità e una innata ironia l’autrice esplora (ricorrendo anche al video e alla performance) i ruoli e i cliché nella società islamica, mettendo a fuoco soprattutto i meccanismi di controllo sulla donna. La visione leggiadra e poetica di una figura femminile di spalle, avvolta nel velo nero, con il braccio alzato che agita i palloncini viola in direzione di un aereo sfrecciante nel cielo azzurro, nulla toglie alla forza del messaggio.