Bielorussia, il grido operaio per salari migliori
Gli scioperi in Bielorussia Lo stipendio minimo è di 139 dollari al mese e la media nel paese è di 500 dollari
Gli scioperi in Bielorussia Lo stipendio minimo è di 139 dollari al mese e la media nel paese è di 500 dollari
Questa strana estate 2020 verrà ricordata anche il ritorno dello sciopero politico. Sì perché i lavoratori che si stanno mobilitando in Bielorussia incrociano le braccia contro i brogli nelle presidenziali del 9 agosto e le violenze della polizia nei giorni successivi al voto contro i manifestanti. Si tratta delle grandi aziende di Minsk e della provincia e non solo.
Come l’automobilistica Belaz, la Mzkt che produce trattori o lo zuccherificio di Zabink. Tra queste non ci sono solo aziende «fuori mercato» ma anche di gioielli di cui tutto il paese va fiero. Come la Belaruskali, 16 mila dipendenti, uno dei maggiori produttori mondiali di cloruro di potassio. Controlla circa il 20% del mercato globale del suo settore e rappresenta il 5,6% del bilancio consolidato della Bielorussia, esportando 6,2 milioni di tonnellate di fertilizzanti l’anno.
«I lavoratori si sono ribellati con forza a causa della violenza della polizia nelle carceri» dice Mikhail un ingegnere della Belaz che non si vergogna di aver votato Lukashenko. «Non vogliamo che le nostre tasse vadano a stipendiare gente che massacra cittadini inermi, in questo il presidente ha sbagliato e tanto: forse dopo un quarto di secolo è veramente tempo che vada in pensione» conclude. Le dimensioni dello sciopero nel paese – seppur inedite ed estese – nessuno le conosce veramente perché spesso in questi giorni gli scioperi sono stati annunciati ma poi si trasformano in semplici assemblea di protesta come quella inscenata ieri dai lavoratori aeroportuali.
I sentimenti nei posti di lavoro sono contraddittori. Ci sono tanti che vogliono le dimissioni del presidente (e perfino il suo arresto come hanno votato in assemblea i minatori di Salihorsk) altri che sono più cauti e si accontenterebbero di nuove elezioni. Il fatto è che l’economia bielorussa non è certo basata sul terziario, al mattino sugli autobus si vendono ancora le tute blu. In un paese con 10 milioni di abitanti 5 sono salariati e quasi di 2 lavorano nell’industria.
In un certo senso ancora un paese sovietico dove il 70% del pil proviene dal settore statale. È tra la gente che si alza presto al mattino per andare in fabbrica dove il consenso a Lukashenko per tanti anni è stato forte, basato sulla sicurezza del posto di lavoro e servizi sociali dignitosi. Alexander Yaroshk, dirige il Congresso bielorusso dei sindacati democratici: «Per molti anni abbiamo fatto fatica a organizzare il lavoratori, venivamo imprigionati ma ora si respira un’aria nuova e stiamo cercando di coordinare per quanto possibile i comitati di sciopero» afferma. Il rapporto tra il presidente e i lavoratori si sarebbe incrinato già da tempo: «I salari sono rimasti bassi se non miseri, è stata realizzata la “riforma” delle pensioni, sono iniziate le privatizzazioni delle imprese, è stato introdotto il lavoro a chiamata, le rose e i fiori sono roba del passato» sostiene.
Già le privatizzazioni, il vero incubo di una classe operaia abituata a lavorare tutta la vita nella stessa azienda senza tante preoccupazioni. In fondo gli operai sono rimasti legati al padre-padrone Lukashenko perché non hanno voglia di vedere le «loro» fabbriche chiudere per far posto agli ipermercati.
«Un mondo non certo fatato» afferma Ivan Steklov docente di sociologia del lavoro a Mosca. «In Bielorussia soprattutto tra i giovani si aspira a carriere professionali più dinamiche e a salari più consistenti» afferma Steklov. Il salario minimo è in Bielorussia di 139 dollari al mese e la media è di 500, secondo le rilevazioni della Banca mondiale: non molto anche se i prodotti alimentari e gli affitti a Minsk non sono paragonabili a quelli occidentali.
Emerge allora che sotto la cenere, brucia la questione salariale. Alla Belaz i salari sono di 350-400 dollari al mese e sono stati recentemente tagliati del 20% causa la mancanza di ordini dopo lo scoppio della crisi del coronavirus. Un vero paradosso: una protesta politica che nasconde una questione salariale. «I lavoratori stanno usando inconsciamente la crisi politica per alzare la voce su piano di rapporti di forza in fabbrica, se fanno passare questa ondata dovranno stare in silenzio a lungo» conferma il sindacalista Yaroshk.
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