Biden, Erdogan e Putin, destini incrociati
Caucaso/Mondo Firmato accordo sul cessate il fuoco. Le tre firme sono del presidente russo Putin e dei due leader di Armenia e Azerbaijan, il sigillo a una crisi che gli Usa non hanno potuto gestire, presi com’erano dalla campagna elettorale.
Caucaso/Mondo Firmato accordo sul cessate il fuoco. Le tre firme sono del presidente russo Putin e dei due leader di Armenia e Azerbaijan, il sigillo a una crisi che gli Usa non hanno potuto gestire, presi com’erano dalla campagna elettorale.
I destini di Biden, Erdogan e Putin si incrociano ancora una volta. Blindato dentro la Casa Bianca, dopo avere licenziato il capo del Pentagono e messo in lista nera i responsabili di Cia e Fbi, Trump forse non si è neppure accorto che armeni e azeri hanno accettato il cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh. Le tre firme sono del presidente russo Putin e dei due leader di Armenia e Azerbaijan, il sigillo a una crisi che gli Usa non hanno potuto gestire, presi com’erano dalla campagna elettorale. E che l’Europa non ha saputo risolvere, nonostante i tanti miliardi spesi in questi anni di monitoraggio e peacekeeping.
L’accordo prevede che gli eserciti si fermino dove sono e che la Russia (e forse la Turchia, sponsor di Baku) dispieghino un contingente di pace per avviare trattative con l’obiettivo di definire lo status dell’enclave che Armenia e Azerbaijan si contendono da oltre trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica. Eppure in questa crisi del Nagorno divampata in guerra dal 27 settembre scorso, Biden è coinvolto più di quanto si possa pensare. Se le cronache del conflitto sono veritiere, ci hanno raccontato che il reiss turco Edogan, il Sultano della Nato, ha inviato consiglieri militari e jihadisti sul fronte azero. Fu proprio Biden, da vicepresidente di Obama, ad accusare Erdogan nel 2014 di essere stato responsabile dell’ascesa del Califfato in Siria e in Iraq in un discorso all’università di Harvard. Poi Biden si scusò e due anni dopo fece anche un incontro con il leader turco a Istanbul. In realtà Biden sapeva di avere detto la verità ma soltanto a metà: era stata Hillary Clinton, allora segretario di Stato Usa, a incoraggiare Erdogan per facilitare l’afflusso di jihadisti in Siria e abbattere il regime di Assad.
Il problema del Medio Oriente, e del Medio Oriente “allargato”, sono le mezze verità, come ci ha insegnato un maestro del giornalismo come Robert Fisk che qualche giorno fa ci ha lasciati. Gli Stati Uniti e gli europei coinvolti nel Nagorno Karabakh hanno poco da lamentarsi se questa venisse chiamata un giorno la “pace” di Putin. In questi anni hanno smaccatamente favorito l’Azerbaijan che tra l’altro deve portare il suo gas in Europa e in Italia con il gasdotto Tap. Hanno corteggiato il presidente Aliev che come tutti i capi che hanno in mano gas e petrolio non ha lesinato quattrini per ungere le ruote delle lobby filo-azere in Europa. E anche quando gli europei, come la Francia e l’Italia, hanno condannato il massacro degli armeni come “genocidio” poco è cambiato. Si è lasciato che Erdogan armasse l’Azerbaijan e facesse il comodo suo in Libia e nel Nord della Siria, massacrando i curdi alleati contro il Califfato dopo il ritiro delle truppe americane. Una sorta di Sabra e Chatila dei nostri tempi. Agli europei, alla Nato e alla Germania interessava soprattutto che Erdogan si tenesse in casa tre milioni di profughi senza affollare la rotta balcanica e quella dell’Egeo. Ma Erdogan è tornato a ricattare l’Europa nel momento in cui ha rivendicato il diritto a sfruttare le risorse di gas nel Mediterraneo orientale: in questa fase è nata l’alleanza in funzione anti-turca tra Grecia, Cipro, Israele, Egitto e Francia.
Alleanza dalla quale l’Italia si è defilata preferendo trattare direttamente con Ankara. Del resto dopo il disastro della Libia nel 2011 è difficile pensare di tornare a fidarsi di Parigi, se non quando la Francia decide di accompagnarci a fare la guardia ai profughi con la marina militare sulle coste tunisine. La realtà è che Erdogan è il capo dei jihadisti, non per ipotetiche influenze ma per fatti concreti: li ha usati in Siria, in Libia, in Africa e ora anche, a quanto pare, pure nel Nagorno-Karabakh. Il problema è che la Turchia rappresenta un pilastro dell’Alleanza atlantica e serve per lo meno a due scopi. Uno è quello della presenza militare e nucleare americana sul fianco sud-orientale. L’altro è che tiene occupata la Russia in tre conflitti, dalla Siria alla Libia al Caucaso. Il terzo, come dicevamo, è quello di custodire in casa milioni di rifugiati. Per questo che lo scontro, anche personale, tra Macron ed Erdogan è da soppesare con attenzione.
Ora ci chiediamo cosa farà Biden in Medio Oriente e nel Mediterraneo, un giochetto assai gradito agli europei per scaricare un po’ di responsabilità dopo aver deciso di fare dell’Europa qualche cosa di simile al confine tra Stati Uniti e Messico per arginare i popoli in cammino. La realtà è diversa da come la descrive oggi la Casa Bianca, che aveva cominciato l’anno del Covid ammazzando con un drone il 3 gennaio nella capitale irachena il generale iraniano Qassem Soleimani, colui che nel 2014, dopo la caduta di Mosul e la disfatta dell’esercito iracheno, aveva fermato con le milizie sciite il Califfato alle porte di Baghdad.
E non è un caso che la Kamala Harris abbia criticato aspramente questo omicidio e l’uscita dall’accordo con l’Iran sul nucleare voluto da Obama nel 2015. Vedremo se anche il suo capo, Joe Biden, la penserà allo stesso modo. In campagna elettorale ha criticato Erdogan per il massacro dei curdi e dell’opposizione. Aspettiamo ora di vedere se alle parole seguiranno i fatti.
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