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Biciclette partigiane, un’arma potente contro il nazifascismo

Biciclette partigiane, un’arma potente contro il nazifascismoOnorina Brambilla

Sport A dispetto dei divieti e dei posti di blocco, le azioni di staffette e combattenti su due ruote

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 26 aprile 2014

Il rapporto tra la bicicletta e la lotta partigiana fu indissolubile, anzi in alcune circostanze vitale. La bici serviva per muoversi agilmente in città, era considerata dai gappisti una vera e propria arma. I partigiani in bicicletta ebbero lo stesso ruolo svolto circa trent’anni prima dai Ciclisti Rossi, che grazie alle due ruote ebbero un ruolo di fondamentale importanza per l’informazione ai contadini durante l’occupazione delle terre in Romagna e nelle Marche. Giovanni Pesce, nome di battaglia Visone, leggendario comandante dei Gap di Milano, così si espresse a proposito delle biciclette partigiane: «Senza le biciclette i combattenti delle Brigate Gap nelle città, durante la Resistenza, non avrebbero potuto esistere. Come avrebbe potuto operare a piedi un gappista in una città resa semideserta dalla guerra e presidiata dai nazifascisti? Senza la bicicletta tutta l’attività clandestina non avrebbe potuto muoversi con tutta quella relativa scioltezza con la quale si muoveva».

Il 24 aprile del 1945 a Milano l’annuncio dell’insurrezione fu trasmesso ai vari punti della città grazie alle staffette in bicicletta. Un ruolo di primaria importanza, durante la Resistenza, lo svolsero le donne, in particolare quelle che aderirono ai Gruppi di difesa della donna (Gdd), un movimento di donne antifasciste sorto nel novembre del 1943 che con grande coraggio trasportavano la stampa clandestina e i messaggi ai gappisti. La testimonianza di Onorina Brambilla, nome di battaglia «Sandra», è esemplare: «Ero giunta all’altezza di Porta Lodovica a Milano, quando vidi un posto di blocco fascista. Io ero in bicicletta e provenivo da Mazzo nei pressi di Rho, dove operava un gruppo di bravissimi gappisti. Grassi, uno di loro, mi veniva incontro ai limiti di un bosco e mi consegnava quello che avrei dovuto far avere ai compagni. In genere dinamite, rivoltelle, detonatori e bombe a mano. Avevo percorso viale Gian Galeazzo. Nel cestino di vimini, posto sul manubrio avevo due rivoltelle. Non potei certo cambiare strada, avrei dato nell’occhio, decisi di proseguire, ero impaurita, ma non avevo alternative. Giunsi in piazza, i marò erano ragazzi di 21-22 anni, volti da bambini, uno mi sorrise, risposi a mia volta, l’altro disse ’vai bella’. Restai inebetita, stentai a pedalare, ci volle un momento perché rientrassi in me e per riprendere a pedalare». Visto il gran ruolo svolto dalle biciclette partigiane, il 5 settembre del ’44 il prefetto della provincia di Milano emise un’ordinanza che impediva la libera circolazione in bicicletta, una decisione impopolare, che creava grossi problemi di viabilità alle migliaia di operai che andavano al lavoro in bici. Infatti di lì a poco fu ritirata.

A ricordarci il ruolo delle donne in bicicletta nella Resistenza, c’è un capitolo del libro Pane nero di Miriam Mafai: «La Cesarina imparò tutte le strade per andare da Modena a Bologna, ci andava fino a cinque giorni la settimana, portando comunicazioni, stampa clandestina, armi, una volta portò perfino una ricetrasmittente. Ogni volta si trattava di superare quattro o cinque posti di blocco…fece per mesi avanti e indietro Modena-Bologna: quaranta chilometri in bicicletta ogni volta con il brutto tempo, la pioggia, la neve, i mitragliamenti in una campagna dilaniata dalle rappresaglie partigiane e dai rastrellamenti tedeschi».

Per Giovanna Zangrandi, la staffetta delle brigate comuniste, che faceva la spola tra Cortina d’Ampezzo, dove insegnava e il Cadore, dove si erano concentrati i partigiani, i nazifascisti misero una taglia di 50 mila lire, tale era la sua abilità. Il ruolo della bicicletta fu decisivo anche in vista dello sciopero insurrezionale del 28 marzo 1945, come ricorda nelle sue memorie Da galeotto a generale Alessandro Vaia, combattente nella guerra di Spagna, comandante partigiano nelle Marche e membro del comitato insurrezionale di Milano: «Prima alla Fiat e in tutto il Piemonte, poi a Genova e a Milano.

Lo sciopero a Milano del 28 marzo assume già un carattere insurrezionale, è accompagnato da cortei e manifestazioni di lavoratori, che scendono nelle strade con cartelli e bandiere, è appoggiato in strada dalle forze armate delle Sap. Il comando delle brigate Garibaldi aveva predisposto un piano per la protezione delle fabbriche nel caso di interventi dei fascisti e dei tedeschi, e attorno alle fabbriche aveva steso una rete di mille uomini in bicicletta… In questa occasione di particolare rilevanza la bicicletta ebbe un rilievo decisivo per il pieno successo dell’iniziativa».

A schierarsi con la Resistenza in bicicletta anche l’artista Aligi Sassu, che da Milano si recava a Como per ritirare pacchi dell’Unità che arrivava dal confine svizzero, come ricorda Raffaellino Degrada, già condannato nel 1938 a scontare una dura pena in carcere per aver diffuso la stampa comunista clandestina: «Con Aligi Sassu, che con me si esercitava nel ciclismo dilettante, ci siamo recati più volte a Como, dove Scavino, il guardiano di Villa Olmo, ci portava pacchi non ingenti de l’Unità e del Nuovo Avanti, che compagni ferrovieri nascondevano nei treni provenienti da Lugano. Prendevamo i pacchi e poi via di volata con il cuore in tumulto».

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