Biblioterapia, ovvero rammendare cuore e mente
Express La rubrica delle culture che fa il giro del mondo
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Se leggere fa davvero bene alla salute fisica e mentale, è questione di cui si dibatte da tempo e sulla quale ognuno può dire tranquillamente la sua, a seconda delle proprie inclinazioni, magari portando a sostegno «inattaccabili» studi scientifici. (È questa un’epoca in cui si sente ripetere la frase «io credo nella scienza», come se la scienza fosse un dogma, e non un concatenarsi di ricerche e di scoperte soggette ad aggiustamenti e a non infrequenti ribaltoni).
Così per esempio l’educatore britannico Peter Leyland ha scritto di recente su «Psyche» che «i libri contribuiscono a curare la mente e il cuore», portando a riprova la sua esperienza personale (il conforto ricevuto da alcuni testi amati in un momento di crisi) e i corsi di biblioterapia che ha cominciato a tenere da qualche anno.
In realtà lo stesso Leyland sottolinea, ed è difficile dargli torto, che gran parte del potere terapeutico consiste «nel trovare il libro giusto al momento giusto» – una combinazione felice ma tutt’altro che scontata.
Che il panorama librario non sia per forza di cose un paradiso (anzi), lo dice anche il critico spagnolo Emilio Pascual, di cui è uscito da poco per Siruela Gabinete mágico, lungo e affascinante percorso tra le grandi biblioteche letterarie, dall’ineludibile Babele a quella di Don Chisciotte giù giù fino alla library del colonnello Bantry, fra i protagonisti del giallo di Agatha Christie C’è un cadavere in biblioteca. Intervistato da Esther Peñas su «Contexto», Pascual afferma senza giri di parole che no, non hanno ragione i sostenitori della lettura ad ogni costo: «Non è vero che è meglio leggere qualsiasi cosa piuttosto che non leggere affatto; ci sono libri spregevoli».
E tuttavia «l’essenza di quel mezzo cui diamo il nome di libro è destinata a rimanere, anche se l’oggetto in sé subirà cambiamenti» che non possiamo immaginare. Del resto «Saavedra Fajardo, nel XVII secolo, cioè centocinquant’anni dopo Gutenberg, diffidava ancora dei libri a stampa e preferiva i manoscritti perché, secondo lui, richiedevano maggiore attenzione nella lettura» – proprio come capita a noi oggi, quando diciamo, a torto o a ragione, che la memoria della lettura su schermo è più labile.
Insomma, anche se in molti casi sono brutti, anche se non è affatto sicuro che siano taumaturgici, i libri restano una delle invenzioni migliori e più durature della specie umana – ancora oggi, forse, il modo più efficace per mantenere un contatto con coloro che non sono più con noi. A volte, anche in senso letterale: è il caso del Recetario para la memoria, un libro di cucina che – scrive Micaela Varela su «El País» – è stato ideato e realizzato dalle mogli e le madri degli oltre centomila desaparecidos messicani per ricordare i loro cari attraverso i piatti che hanno amato di più. Zahara Gómez Lucini, ideatrice del progetto (che ha dato origine a due volumi, dedicati rispettivamente alle aree di Sinaloa e di Guanajuato), chiarisce che in realtà il ricettario è un modo «per continuare a parlare di un argomento che satura i titoli della stampa messicana, ma in un formato più intimo, capace di costruire ponti di empatia con la società».
Certo, nessuno si aspetta che il libro faccia miracoli, ma secondo la giornalista Daniela Rea, che ha partecipato alla redazione dei testi, il Recetario «offre un rifugio nella battaglia delle donne che continuano a cercare i loro parenti», senza contare che le vendite, sostenute dalla Universidad Iberoamericana de León e sponsorizzate dallo chef Jaime Duran, servono a raccogliere fondi a favore delle donne in cerca di lavoro e delle associazioni che hanno creato dopo la scomparsa dei loro familiari. Non poco, nella quantità di libri inutili che ci circondano.
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