Biblioteche del mondo e pratiche del confronto
SAGGI «La casa di tutti», di Antonella Agnoli per Laterza
SAGGI «La casa di tutti», di Antonella Agnoli per Laterza
Le biblioteche salveranno il mondo? La domanda viene spontanea dopo avere terminato La casa di tutti, il nuovo saggio di Antonella Agnoli (Laterza, pp. 160. euro 18), «instancabile viaggiatrice tra persone e libri», che qui riprende e amplia i temi già trattati in un suo fortunato libro precedente, Le piazze del sapere (Laterza, 2009). La biblioteca come «piazza» o «casa di tutti», e dunque capace di diventare – in un mondo, lo constatiamo ogni giorno, sempre più privato e deprivato – lo spazio pubblico per eccellenza e dunque il luogo elettivo per il dialogo, il confronto, il cambiamento – un cambiamento che si immagina inevitabilmente positivo.
LE FOTOGRAFIE che corredano il libro e forniscono un supporto visivo ad alcune fra le molte storie che Agnoli racconta sulla base di esperienze di cui è stata testimone su e giù per l’Italia, e in Europa, e pure fuori, dagli Stati Uniti alla Colombia, avvalorano questa immagine della biblioteca come «casa» delle persone, ben più che dei libri. In effetti di volumi se ne vedono pochi, e sempre sullo sfondo. Al centro ci sono donne e uomini, ragazze e ragazzi, perlopiù intenti a discutere o applicati alle attività più diverse: chini su una macchina da cucire o concentrati in una partita a scacchi. E quando non ci sono gli umani, l’obiettivo inquadra oggetti – strumenti musicali, tavoli da calciobalilla, computer – che evocano il gioco, la creatività, l’informazione. Certo, ci sono giovani e adulti che leggono, ma in queste immagini la lettura appare solo come una delle tante attività che una biblioteca può ospitare.
ANTONELLA AGNOLI scrive a ragion veduta. In giugno la rivista canadese The Walrus ha pubblicato un articolo, «Have You Been to the Library Lately?» (Siete stati di recente in biblioteca?), in cui l’autore, Nicholas Hune-Brown, descrive la profonda mutazione di quelle che fino a pochi anni fa venivano considerate esclusivamente le dimore dei libri, i luoghi dove il sapere dei secoli, in forma di pagine cartacee, veniva conservato e reso accessibile secondo regole precise, prima fra tutte il silenzio.
Oggi non è più così. Il sottotitolo dell’articolo lo riassume in poche parole eloquenti: «Una volta i bibliotecari si preoccupavano di zittire i frequentatori. Ora devono affrontare episodi di salute mentale, la crisi dei senzatetto e casi di violenza gratuita». Non a caso, spiega Hune-Brown, «negli ultimi dieci anni molte biblioteche nordamericane hanno iniziato ad assumere assistenti sociali interni in risposta alle ondate di persone vulnerabili che arrivano alle loro porte… con l’idea che la biblioteca debba sempre essere un luogo accogliente per tutti, ma che il vero lavoro di assistenza alle persone senza fissa dimora debba essere gestito dai professionisti».
POSSONO SEMBRARE casi-limite, ma Antonella Agnoli ha in mente un quadro simile quando, ispirandosi alle teorie di Ezio Manzini, importante studioso di design per la sostenibilità, scrive che «gli edifici devono cambiare perché il loro uso sta cambiando». E in particolare «le infrastrutture sociali e quelle bibliotecarie devono collocarsi all’interno di ciò che Manzini chiama la città che cura, ovvero ‘un ecosistema di persone, organizzazioni, luoghi, prodotti e servizi che nel loro insieme esprimono una reciproca capacità di cura’».
Non è teoria astratta. La galleria degli esempi è lunga e variegata: c’è la Biblo Tøyen di Oslo, in Norvegia, diventata «un formidabile strumento di integrazione sociale» con i suoi free clubs aperti a adolescenti provenienti da contesti diversi; ci sono i Parchi bibliotecari di Medellín, in Colombia, che hanno ricevuto molti premi internazionali per l’impatto sorprendentemente positivo su una città considerata tra le più pericolose al mondo; e c’è la Casa Gialla di Bologna, aperta nel luglio 2021, che è frequentata da decine di ragazzi e dove è possibile tra l’altro seguire corsi di trucco. Commenta Agnoli: «Forse alcuni storceranno il naso: il dibattito su cosa è giusto fare in biblioteca è sempre molto acceso. Ma se laccarsi le unghie è un modo per far venire le ragazzine, che poi scoprono che lì dentro possono fare tante altre cose, e possono stare insieme a farsi le treccine, perché no?».
A QUESTO «perché no?» o al suo ipotetico inverso «perché sì?» è difficile dare una risposta. Ma il pregio di un libro come La casa di tutti è proprio quello di porre interrogativi con i quali è necessario confrontarsi e che non riguardano solo le biblioteche, ma pure la scuola, l’informazione, la società intera.
La posizione di Agnoli è chiara: da una parte «la nostra generazione che si è impigrita e vorrebbe stare sul divano a leggere i classici», dall’altra «i giovani vogliono difendere il futuro e vogliono agire» e che è impensabile «attirare in biblioteca per proporre loro dei libri, una tecnologia che non frequentano».
Leggendo, però, le domande si moltiplicano: davvero la contrapposizione è tanto netta? E se sì, è proprio necessaria una cesura con la conoscenza del passato, o perlomeno con le forme di trasmissione che abbiamo conosciuto finora? E infine, i «cantieri culturali dove ci si diverte, si impara, si lavora per il futuro» (le biblioteche dei tempi a venire secondo Agnoli) riusciranno a non perdere di vista quell’oggetto formidabile che è il libro, la più potente macchina del tempo e dello spazio mai inventata finora? Non lo sappiamo, ma benedetto il libro (appunto!) che ci impone di chiedercelo.
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