Bianca Tarozzi, paziente e immaginifica, l’antica arte del tradurre
Giovanni Bellini, «San Girolamo nel deserto», 1480 ca., Firenze, Gallerie degli Uffizi
Alias Domenica

Bianca Tarozzi, paziente e immaginifica, l’antica arte del tradurre

Esercizi di lettura Wyatt, Herbert, Shelley, Dickinson, Housman, Yeats, Larkin, Plath, Glück: Imitazioni (Molesini Editore), esemplari esercizi di Bianca Tarozzi, un’amica del testo inglese e della poesia italiana
Pubblicato più di un anno faEdizione del 9 luglio 2023

Bianca Tarozzi è autrice di alcuni dei più bei racconti degli ultimi trent’anni, un paio almeno, per complessità e respiro, quasi delicate novelle o romanzi brevi, come la nostra narrativa ne vanta assai pochi (Agostino di Moravia, La finestra di Soldati, La ragazza col turbante di Marta Morazzoni…). Se poi i suoi libri non sono mai spuntati, non dico alla finale, ma nelle selezioni dello Strega o del Campiello è semplicemente perché questi racconti – racconti abitati da tanti personaggi cui l’autrice lascia vero spazio – sono scritti in versi, talvolta anche in rima, sempre o quasi nei limpidi endecasillabi, settenari e quinari che alla Tarozzi vengono naturali come il respiro: fin da bambina – ci racconta, nel breve scritto autobiografico che suggella le sue Imitazioni (Molesini Editore, pp. 164, euro 16,00) – e giovane donna, a fine anni cinquanta-anni sessanta, quando comporre, e tanto più tradurre nei versi regolari della tradizione cominciava a esser guardato con sospetto (adesso, mi sembra, è meno così).

Variazioni sul tema di Penelope, Nessuno vince il leone, La lezione di matematica, Rossana, La buranella (che dà il titolo alla raccolta uscita nel ’96 nella collana di poesia Marsilio diretta da Raboni – il quale, giustamente, nel risvolto faceva il nome di Robert Browning), Sorelle, Il teatro vivente, Le ville: sono poemetti articolati, spesso in prima persona (monologhi drammatici, appunto), talvolta scanditi in parti numerate come brevi capitoli.

È cosa inconsueta, nella nostra poesia moderna; molto meno in quella angloamericana, di cui non a caso la Tarozzi è cultrice. E non a caso, i suoi racconti in versi riescono godibilissimi anche in traduzione (vedi l’antologia di Jeanne Forster e Alan Williamson: The Living Theatre. Selected Poems of B.T., BOA Editions, Rochester, NY, 2017), quasi fossero nati apposta per riambientarsi senza sforzo nella lingua alta ma colloquiale e nei ritmi di Robert Lowell, Elizabeth Bishop o James Merrill.

Che sono solo tre dei poeti inclusi nel suo Imitazioni: gli altri, Thomas Wyatt, George Herbert, P.B. Shelley, Emily Dickinson, A.E. Housman, W.B. Yeats, Thomas Larkin, Sylvia Plath e infine Louise Glück (frequentata anni prima del Nobel). Anche il titolo del libriccino – lo stesso del quaderno di traduzioni di Attilio Bertolucci (Scheiwiller 1994) – è una sorta di omaggio a Lowell.

Seppure poi, a differenza delle Imitations (1961) del poeta di Boston, che spesso partono per conto loro dimenticando o fraintendendo, a volte proprio stravolgendo il ‘modello’ (più d’una, ahimè, fu fatta in manicomio!), queste della Tarozzi son vere e proprie traduzioni, dove lo scarto dall’originale – se poi c’è – è minimo, e consapevole: non serve di due padrone, insomma, bensì amiche, sodali e del testo inglese e della poesia italiana.

Come, per fare un solo esempio, in quest’attacco dell’Incantatore di serpenti della Plath: «Come gli dèi diedero inizio a un mondo, e l’uomo a un altro, / così l’incantatore dà inizio a una sfera serpentina / con occhio lunare, con il flauto. Suona. Suona il verde. Suona l’acqua».

Che l’esercizio della traduzione (che – ci penso mentre scrivo – è proprio un dare inizio a un altro mondo, umano) per Bianca Tarozzi quasi coincida con quello della composizione originale è detto bene anche in una delle sue poesie credo più recenti, Preghiera, rivolta prima all’angelo custode, poi a San Gerolamo, intento nel deserto al suo «lavoro paziente e immaginifico»: produrre la Vulgata!

La si legge, questa ‘preghiera’, in Devozioni domestiche, la sua ultima raccolta, pubblicata sempre da Molesini (pp. 90, e 16,00). In nota, la stessa Tarozzi segnala come nel libro, dove «prevalgono le occasioni autobiografiche», pure non manchino «i personaggi e i paesaggi storici: il dopoguerra con le sue rovine, gli anni di piombo e l’undici settembre».

Storia (con la S maiuscola) e storie famigliari infatti vi si intrecciano fin dall’‘inizio’: cioè dall’incipit impagabile di Nascita – «Sgusciavo fuori / piena di energia, / era l’otto dicembre a casa mia / ma a Pearl Harbor cadevano le bombe» –, collocata, credo ad arte, proprio al centro del volumetto.

Dove si trovano almeno due nuovi racconti in versi (un po’ più brevi di quelli a cui ci avevano abituato le raccolte precedenti): Un sogno e Una sera come le altre (che, miracolosamente, nella quotidianità intreccia due sorprese, due colpi di scena); tanti ricordi e affondi nel passato; nessun indulgere alla malinconia («Rivendico gli sbagli, / vado senza bagagli, / vado senza rimpianti»). E anche questa forse enigmatica – ma scanzonata – Esortazione, ancora ‘piena di energia’ come alla ‘nascita’: «Tu non cedere, / non dire che è impossibile, / vienmi incontro, così / a macchie grigie e blu, / così sgrammaticato e miserabile, / così Arlecchino, tu, / amore, nuovo giorno! // Che cosa cerchi infine? / È tutto qui – / noi ti guardiamo, / vogliamo che ci vedi; / mettila via / qualunque cosa sia, / vieni con noi, / non dire che non puoi».

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