Esiste un modello di spazio che abita le nostre fantasie? Un’idea di luna che precede quel satellite e ne disegna forme e colori anche quando non è visibile fra le nuvole? La domanda è retorica, perché per costellazioni e mondo celeste vale lo stesso alfabeto visivo che ci accompagna da secoli riguardo alle cose terrestri. Lassù, però a tracciarne i contorni è stata la Nasa con il suo «occhio digitale», il primo a indagare galassie e sistema solare (che, tra l’altro, dal 2017 in gran parte è un patrimonio audiovisivo fruibile e libero da copyright).

Bianca Salvo è una fotografa e artista visiva che lavora tra Milano e Bogotà. Alla IX edizione del Festival internazionale di fotografia e arte contemporanea di Castelnuovo di Porto (inaugurazione oggi) è presente con il suo The Universe Makers (in collaborazione con Les Boutographies, Rencontres photographiques de Montpellier e l’associazione PhotoTales di Roma.

«The Universe Makers» produce una riflessione che rappresenta da sempre il «nodo concettuale» che avvolge lo strumento «fotografia». Vediamo solo ciò che desideriamo? E, soprattutto, la fotografia può lavorare come un elemento di disturbo, un falsario rispetto ai dati di realtà?
Pensando al ruolo e alla funzione delle immagini fotografiche nella contemporaneità mi sento di dire che spesso vediamo solamente ciò che desideriamo o «immortaliamo» per mezzo di immagini ciò che vogliamo sia desiderato da altri. La fotografia si muove tra due poli opposti: da un lato, c’è la sua capacità intrinseca di fornire rappresentazioni oggettive e fedeli della realtà, dall’altro l’impossibilità, dovuta al gesto umano, di raggiungere completamente questa ambita neutralità. Può agire da «falsaria» e credo che il mondo in cui viviamo ne possa dare testimonianza. Tuttavia, la cosa più importante è domandarsi come utilizzarla per generare nuove riflessioni su ciò che viene percepito come realtà e su quello che viene definito come finzione.

La fotografia ha come suo retroterra un immaginario collettivo, costruito dai mass media o condiviso da comunità sociali: oltre alla manipolazione emozionale, agisce però anche su un bisogno profondamente umano, svelandolo. Cosa ne pensa?
Sono d’accordo. Può essere considerata come uno strumento di potere capace di costruire sistemi di credenze condivisi ma questa sua abilità risponde essenzialmente a un primordiale desiderio dell’essere umano: quello di identificarsi con il mondo che lo circonda.

Credenza e immagine che rinforza il potere. Il mutamento antropologico e massmediatico iniziò con la diretta dell’uomo che andò sulla Luna?
Sicuramente questo evento ha avuto un ruolo fondamentale nel permeare il modo in cui pensiamo e immaginiamo lo spazio; a livello mediatico è stato il più eclatante ma anche il più affascinante e commovente. Ricordo che quando ho cominciato a lavorare alla creazione di The Universe Makers mi sembrava estremamente rilevante che, grazie alle immagini, questo evento fosse stato trasformato in un’esperienza universale. Non credo comunque che sia l’unico esempio in cui il potere occidentale sia stato perpetuato o ribadito per mezzo di immagini: basti pensare che quando la fotografia, dopo la sua invenzione, comincia a essere utilizzata a servizio di altre discipline – come la medicina o l’antropologia – in vari momenti della storia vengono proposte versioni distorte di quello che fino a quel momento veniva considerato come ignoto, sconosciuto o esotico.

Può spiegarci meglio il progetto «The Universe Makers»? A quali archivi ha attinto e perché sono stati scelti?
Questo progetto nasce in occasione di una mostra collettiva Shifting Focus che si è tenuta a Berlino nel 2016. Volevo presentare un nuovo progetto e un paio di mesi prima mi ero imbattuta in una serie televisiva di fantascienza degli anni 50 The Twilight Zone (in Italia Ai confini della realtà) che mi ha molto ispirato nella realizzazione della mia opera. Da tempo riflettevo intorno a un progetto che esplorasse il ruolo che fotografia, media e fantascienza hanno avuto nella costruzione di un immaginario collettivo sullo spazio. Ero inoltre interessata ai recenti processi di digitalizzazione di archivi da parte di istituzioni e centri di ricerca. Così, ho cominciato un processo di selezione di immagini attingendo principalmente al «database» della Nasa. Se inizialmente l’idea era quella di utilizzare questo materiale come ricerca, dopo poco ho capito che era indispensabile integrarlo con il resto della serie. La scelta e la selezione finale sono stati un processo a tappe abbastanza lungo: l’idea originaria era quella di spaziare tra immagini abbastanza note che avevano già specifica nell’immaginario collettivo e mescolarle con alcune più complesse, diverse, non immediatamente comprensibili.

Come interagisce con il tema del festival di Castelnuovo di Porto di quest’anno?
Il progetto suggerisce un dialogo aperto con l’idea del paesaggio futuro, tema di questa nona edizione. Ad ogni modo, spero che la serie The Universe Makers possa anche approfondire tematiche come l’esplorazione della relazione tra fotografia, realtà e immaginazione.

Quali sono le sue fonti di ispirazione «visive», vivendo tra Italia e Colombia?
Ne ho molte, in effetti, sono sempre stata una persona estremamente curiosa e credo che la mia formazione mi abbia dato la possibilità di trovare ispirazione in luoghi differenti e in elementi differenti. Pensando alla fotografia contemporanea mi vengono in mente i nomi di molti autori che sono stati un punto di riferimento nella mia formazione di artista come Taryn Simon, Adam Broomberg & Oliver Chanarin, Joan Fontcuberta, Carmen Winant.

Cosa si può dire oggi sulla scena artistico-fotografica latino americana?
In questi anni ho notato l’emersione di una scena creativa estremamente attiva, giovane e assai interessante. Tra i temi più battuti, anche se non penso sia unicamente una questione prettamente latino-americana, c’è una riflessione profonda sulla possibilità di decolonizzare immaginari e narrative proprio per mezzo dell’arte e della fotografia.