Nel 1929 Giovanni Papini e Piero Bargellini con Carlo Betocchi, Nicola Lisi, l’incisore Pietro Parigi, fondarono a Firenze la rivista «Il Frontespizio», dalle ceneri del «Calendario dei pensieri e delle pratiche solari», in prima istanza come Bollettino Bibliografico della Libreria Editrice Fiorentina (fu poi acquisita da Vallecchi). Ogni settimana i letterati s’incontravano, gagliardi, nel «bozzo» di piazza de’ Giuochi. E discutevano alacremente. Alle riunioni ebdomadarie si presentò anche il talentuoso studente Carlo Bo, interessato alla figura di Papini. Pian piano cominciò a formarsi una compagine abbastanza affiatata (erano della partita Barna Occhini, Mario Luzi, Alessandro Parronchi, Oreste Macrì, Leone Traverso), di matrice cattolica, mossa da tremori esistenzialistici, con una sbirciata al bollente crogiuolo francese e con articoli e numeri monografici dedicati ad autori come Leopardi e Miguel de Unamuno. Programmatico era l’impegno per un «anelito alla spiritualità», capace di smascherare «ogni finzione, ogni maniera, ogni compiaciuto sfogo di sensualità, come ogni falso spiritualismo, ogni tendenza pseudo-mistica o estetizzante». (Chiari il rigetto dannunziano e l’avversione per la propaganda fascista, anche se più avanti la rivista tornerà su posizioni più «ufficiali».) L’esperienza si esaurì nel ’40, ma già dal ’39 il gruppo del cosiddetto ermetismo fiorentino – per un’esaustiva ricostruzione storica si legga il volume di Giorgio Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo (Marsilio, 2011) – si scolla e trasloca in «Campo di Marte» e «Letteratura».

Due delle figure essenziali di quella generazione, per motivi differenti (l’uno per rispettata «anzianità», l’altro per il nitore critico), furono i già menzionati Betocchi e Bo. Un tassello importante per comprendere il rapporto tra i «due Carli» – e ricostruire meglio lo straordinario periodo di resistenza poetica – è la pubblicazione di una tranche del carteggio: Un’età miracolosa Lettere 1934-1940 (a cura di Annalisa Giulietti, Raffaelli Editore, pp. 188, € 18,00), una puntuale trascrizione condotta su inediti materiali autografi conservati presso l’Archivio della Fondazione Carlo e Marise Bo per la Letteratura Europea Moderna e Contemporanea di Urbino (le 37 lettere di Betocchi) e presso l’Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti» del Gabinetto Vieusseux di Firenze (i 25 originali di Bo). Il corpus completo è di circa 460 missive, spalmabili in un arco temporale che va dal 1934 al 1985. Quelle qui pubblicate sono le prime 62, relative a sei anni di corrispondenza.

Come sottolinea Giulietti nell’introduzione, «da quando si conobbero, Bo e Betocchi divennero protagonisti di uno scambio epistolare che ha attraversato il XX secolo e non si è più interrotto se non per brevi periodi, nonostante le complesse vicende letterarie e umane, storiche e politiche che hanno connotato la loro esistenza e il Novecento italiano ed europeo».

Stima reciproca, tanto affetto, polemiche programmatiche: sin da subito emerge l’esigenza di un dialogo il più possibile franco, fecondo. Il 4 gennaio 1935 Betocchi rivela a Bo: «Io ti scrivo le mie lettere dal margine di quegli stati d’animo entrando dentro ai quali troverai pane o poesia: fame o poesia. Io ho bisogno di questo, per scrivere a te; è sempre il minuscolo lago di me stesso che io costeggio, dal centro l’onde circolari vengono sotto ai miei passi fermando il perimetro della mia passeggiata».

Il poeta e lo studioso – Betocchi, classe 1899, all’epoca ha già mandato alle stampe Realtà vince il sogno, mentre Bo, di dodici anni più giovane, è impegnato con le monografie su Rivière e Sainte-Beuve – parlano a getto continuo di Lafon, Rimbaud, Alain-Fournier, Julien Green, Claudel, Pascal (molta francesistica, come si vede, su cui il giovane «Carletto» è riconosciuto quale autorità indiscussa), ma anche di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Campana, Boine.

Uno dei maggiori problemi affrontati nella corrispondenza è la realizzazione di un romanzo «cattolico» stricto sensu. Osserva Betocchi sempre nella lettera del 4 gennaio: «Giustamente il Mauriac vuole essere, ed è, un romanziere; egli pensa che non deve essere la sua opera d’artista che lo deve salvare, e pensa bene. Di questi romanzi non se ne potrebbe tradurre uno, dicendo, è un romanzo cattolico. Ripeto che nome e aggettivo non possono stare insieme; è il genere che non ne vuole. Vivere, è cattolico? Vivere in un modo lo è, in un altro non lo è più. E la vita, tutta insieme? Ma è la creazione, non la vita, e poi non basta, perché le ci vuole il caldo del cuor di Gesù». Non tarda la risposta di Bo, sei giorni dopo: «E guarda che Mauriac ti darebbe perfettamente ragione, ha a questo proposito pagine bellissime e secondo me definitive. (…) I libri – verità ormai sicura – valgono soprattutto per quello che non dicono, per quello che fanno comprendere. Applica la formula ai romanzi di Mauriac e mi pare tu debba avere la risposta maggiormente rassicurante. Sono tristi, hanno un’aria opprimente – ma mi pare concedano poco sangue a un’assoluta disperazione».

Centrale è il ping-pong epistolare del ’38, anno in cui Bo inizia la carriera accademica presso l’Università di Urbino (diventerà fulmineamente rettore nel ’47) e, per Lorenzo Bedeschi, «ogni frontespiziaio quasi istintivamente cerca la propria strada, lontano da via dei Mille»: da diversi fronti è sollecitata la disputa attorno all’idea di letteratura come vita, che sarà l’oggetto della relazione di Bo al Quinto Convegno degli scrittori cattolici di San Miniato e inviterà implicitamente gli ermetici a una (garbata) fuga da «Frontespizio». Evidenzia ancora Giulietti: «Nel presente carteggio le lettere del 1938 acquistano un’importanza fondamentale, in quanto testimonianza del dibattito in corso prima che esso venga pubblicato, prima che esso vengo diffuso, perché riportato nel primo “farsi” epistolare della comunicazione fra i due».

Pur partendo entrambi dal progetto di una letteratura consustanziale all’anima (à la Charles Du Bos, per intenderci; e per inciso: impressiona la quantità di Carli e Charles implicati!), Betocchi – kafkianamente agrimensore, poeta per «secondo mestiere» – radicalizza la couche spirituale e la direttiva umana dell’azione in Dio. Le cose devono essere scorte nella loro umile oggettività, illimpidendo lo sguardo da ogni cataratta soggettiva (magistrale sarà la lezione del realismo creaturale dell’Estate di San Martino, 1961). Bo incalza au contraire con la condanna della «ansia del tempo minore» («una mostruosa tavola pitagorica», «un’economia sterile di sorpassate conclusioni»), spazio di vanità delle cose mondane, in cui gli pare possa cadere il punto di vista di Betocchi.

Oltre agli alti discorsi di teoresi poetica, sfrigolano da ambo le parti frizzanti amenità («Auguri per San Carlo: anche a me!»), carinerie enclitiche («Voglimi bene», «E tu abbiti i più belli e cordiali auguri»), meteoropatia a gogò («Piove continuamente – una pioggia fine e nera»), sconforti vari ed eventuali («La poesia m’è più lontana che non si veda, dall’alto mare, Atene»), attacchi di pura acedia («E non si sono perdute lettere mie di risposta, no: è tutta colpa della mia pigrizia»), iperbolici dissensi categorici («Tu e Gide avete torto»), salaci pentimenti («Ho scritto ora a Gatto forse una lettera troppo triste. Me la consigliavano e l’ora e il luogo»). Talora il poeta fiorentino allega alcune liriche in lettura, come Alla donna (apparsa poi nella seconda silloge, Altre poesie, 1939), precedute da incipit canzonatori: «Fiore di fannullone, carissimo Carlo, ti piace questo sonetto? È il più bel frutto di fannulloneria letteraria italica, e come tale te lo mando, o addormentato sulle onde». Un rapporto schietto e sincero, conscio dell’irripetibile stagione di slancio dell’ermetismo. E con il Betocchi di Una mattina possiamo asserire: «La verità che vive / nei cuori non si scrive / che misteriosamente».