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Bertozzi e Casoni, dalle forme non nate al puro illusionismo

Bertozzi e Casoni, dalle forme non nate al puro illusionismoBertozzi & Casoni: in grande, "Per Morandi", 2020, ceramica policroma, foto Nazario Spadoni

A Imola, in tre sedi, "Bertozzi & Casoni. Tranche de vie", a cura di Diego Galizzi All’inizio, fra 1980 e 1997, terraglie filamentose, flosce, inconcluse. L’incontro con Gian Enzo Sperone li indirizzò poi verso una mimesi tra iperreale e concettuale. Eppure lo scarto non è così profondo...

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 24 dicembre 2023
Bertozzi & Casoni, “Servizio da tè per due”, 1990-’91, maiolica

Diodoro Siculo diceva che la forza del Sole sulle sponde del Nilo era tale da generare mostri. Il limo possedeva un vigore generativo, ma gli esseri che ne nascevano non sembravano potersi attribuire all’azione di una natura regolare e ordinatrice ma piuttosto a quella d’una volontà lunatica e imperfetta. Se le drôleries – come vengono chiamate tali fantasticherie che trovano una loro apoteosi d’invenzione nei dipinti di Bruegel o di Bosch – un po’ ci divertono e un po’ ci inquietano lo si deve a questa loro apparenza d’opere lasciate a mezzo da un indeciso demiurgo.
Per un certo tempo, anche Bertozzi e Casoni – i due raffinatissimi scultori ai quali la città di Imola oggi dedica (fino al 18 febbraio 2024) una personale davvero esaustiva: Bertozzi & Casoni. Tranche de vie, suddivisa in tre diversi spazi e ottimamente curata da Diego Galizzi (catalogo edito dai Musei Civici di Imola) – somigliarono a delle divinità dubbiose alle prese con le molteplici possibilità della creta. I lavori di questa prima fase della loro carriera, concepiti tra il 1980 e il 1997, che vediamo adesso esposti, pressocché per la prima volta, nell’ex convento di San Domenico oggi museo, non ricordano infatti nulla di compiuto su questa terra. Il loro aspetto terragno e amorfo li fa apparire come forme non nate, esiti elusi e abbandonati della creazione.
I due artisti, d’altra parte, li realizzarono prima che l’incontro col gallerista Gian Enzo Sperone portasse il loro linguaggio verso quella lenticolare imitazione d’oggetti esistenti che sarà poi la loro cifra più caratteristica. Né essi avevano ancora ideato quella grande scultura, Scegli il Paradiso (1997), la quale avrebbe fatto poi in un certo modo da spartiacque.
Quelle che ammiriamo qui sono ancora, invece, forme germinali, lucide, levigate, che vivono in una gioiosa spensieratezza, lattiginosa e seminale. Hanno la consistenza molle delle cose ancora intrise dell’umidore primigenio e, nel guardarle, sembrano fatte di una sostanza che, sebbene già calcificata, conservi ancora un non so cosa di malleabile e di filamentoso. Li diresti tutti un po’ floreali, queste ballerine ricciute, queste terraglie zoomorfe e questi candelabri lisci e spigolosi quasi fossero stati estratti da un quadro di Tanguy; ti indurrebbe a crederlo quel loro aspetto affusolato e floscio che li raccosta agli steli delle piante, anche quando una memoria artistica li rassoda, come accade in Re (1990), un carrello pubblicitario in ceramica che si richiama a Depero, o in Bosco sacro (1993), dove la figura principale ha la grazia allungata delle invenzioni di Gio Ponti. Portate tutte a termine quando i due artisti lavoravano ancora in parte per la Cooperativa Ceramica della città, nelle sculture, così bizzarre e così strane, del periodo, che richiamano un po’ il primo Mirò e un po’ — soprattutto quando, come in Macchina bianca (1987) o in Sottomarino (1996), riproducono macchine improbabili — i disegni fantascientifici del surrealista Topor, osserviamo una sbalorditiva varietà sperimentale.
Poi il mondo aurorale di queste creature attonite e stupefatte, come ridestatesi appena dal brodo primordiale, finì, e l’opera di Bertozzi e Casoni assunse la qualità mimetica che le conosciamo. Eppure, lo scarto non è così profondo come, a un primo giudizio, può sembrare. Per ottenere quel grado di illusionismo la materia doveva far prima, per così dire, ginnastica: aveva bisogno di assottigliarsi, distendersi, incresparsi, di farsi sfoglia leggera, cartoccio, lamina colorata, e soltanto dopo mutarsi in quei cartoni, quei fiori, quei vasi, quelle scarpe, quei bricchi o, addirittura, quegli avanzi di caffè sul fondo d’una tazzina sbeccata che osserviamo, nella seconda sezione della mostra, disseminati tra le stanze del settecentesco Palazzo Tozzoni, in mezzo agli arredi della famiglia che vi abitò.
Ritroviamo qui lo stesso virtuosismo tecnico, la stessa elusività, e la stessa capacità di stupire, sebbene in una maniera più arguta e concettuale. E se ripensiamo alle precedenti statuine fitomorfe o zoomorfe, ci vien da immaginarle come quei folletti delle fiabe nordiche che, per ludibrio degli umani, assumevano a volte forme familiari col solo scopo di condurre i viandanti in un botro e farli perdere tra i tortuosi sentieri d’una foresta.
È di questo genere il demone che anima l’arte di Bertozzi e Casoni? Poco prima di lasciare i Musei di San Domenico abbiamo visto dei pappagalli, perfettamente riprodotti, guardarsi in uno specchio deformante; adesso all’ingresso osserviamo una scimmia su un muro stringere una tela di Vermeer. Dei pappagalli si sa, ma i quadrumani non erano anch’essi soliti farsi beffa della vanità umana, fin dai tempi della Scimmia antiquaria di Chardin? Queste sculture, che vediamo variamente dislocate tra le stanze in un intelligentissimo allestimento, sono tutte a loro modo delle vanitas, e lo sarebbero anche se alcune di esse, come Avanzi (2001), Ossobello (2007) o Riflessione sulla morte (2008) non vi alludessero esplicitamente. Sotto certi aspetti, la maniera con la quale i due artisti usano la ceramica può essere accostata a quella inquietante e proditoria con la quale nel passato veniva usata la cera. E se la prima non ha la carica vagamente funerea e iettatoria della seconda, come negare che nell’opera dei due artisti essa veicoli un messaggio simile a quello dei tanti Memento mori e Trionfi del Tempo che i ceroplasti andarono elaborando per tutto il Seicento? Tutto ciò su cui la nostra società innalza i suoi trionfi è fragile cosa e peritura.
Di ambiente in ambiente vediamo lumache strisciare su cestini di rifiuti e farfalle adagiarsi su valigette d’oggetti dimenticati; altrove, invece, le coccinelle hanno stabilito il loro impero su lindi e politi ossami mentre, a poca distanza, un corpo di scimpanzé irride la bellezza della Caroline Rivière di Ingres. Più innanzi, in Composizione-scomposizione (2007), una selva di tubi cela, mortificate sullo sfondo in imporrite riproduzioni, opere d’arte del passato: quel che resta del Diluvio di Doré è una carta consunta per foderarvi delle casse. Qui la natura, come accade nelle rovine, ha ripreso possesso di quello che l’uomo ha cercato di sottrarle, trasformandolo a suo uso; lì sono gli animali che ne sbertucciano la prosopopea. Altrove invece le semplici prodezze mimetiche bastano a canzonare la sicumera umana. Scimmie, scheletri, pappagalli, trompe-l’œil… i vecchi moralisti del Seicento non avevano impiegato un linguaggio poi tanto diverso. La nostra società dei consumi, d’altra parte, sembra soffrire degli stessi peccati che gli scrittori barocchi andavano condannando, con quel loro gusto per l’inganno e per la meraviglia. E se gli imperi tecnologici ed economici del presente sono retti da una presunzione assimilabile a quella dell’Imperatore Carlo V – che voleva subordinare tutto il mondo alla sua legge e che finì col ritirarsi nel monastero di San Jerónimo a Yust dove si dedicò alla più mite occupazione d’accordare gli orologi –, non si comprende meglio la volontà di Bertozzi e Casoni di recuperare la tradizione di quel gran secolo?
Gli oggetti rotti e sbrecciati, gli scarti di cibo, gli avanzi dei banchetti, le biglie di Natale infrante sono altrettante vanitas: divenuti inutilizzabili, sono ormai restituiti alla polvere. L’oro del capitalismo s’è dissolto, come le bellezze della donna cantata dal poeta spagnolo Luis de Góngora «que fué en tu edad dorada/ oro, lilio, clavel, cristal luciente/ no sólo en plata o víola troncada/ se vuelva, mas tú y ello juntamente/ en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada».

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