Alias Domenica

Bertos, angeli nudi come cavallette impazzite

Bertos, angeli nudi come cavallette impazziteFrancesco Bertos (?), "Caduta degli angeli ribelli" (part.), Vicenza, Galleria d’Italia (Intesa San Paolo)

A Vicenza, Gallerie d'Italia, "La caduta degli angeli ribelli – Francesco Bertos", a cura di Monica De Vincenti e Fernando Mazzocca Gruppi a più figure in pose spericolate, questa la specialità dello scultore veneto, un irregolare di genio che nella prima metà del Settecento ridiede ala al virtuosismo manierista

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 10 novembre 2024

«Due Gruppi di Marmo finissimo copiosissimi di figure tutte scarpelate in un pezzo… L’autore è stato posto nella inquisitione per quest’opera parendo impossibile che la mano umana possi arrivar a tanto». Così nel 1741 venivano descritte due creazioni di Francesco Bertos della collezione veneziana del maresciallo Johann Matthias von der Schulenburg: se davvero ci fu una denuncia all’inquisizione non è dato sapere, ma certo quei gruppi scolpiti ex uno lapide (ovvero da un unico blocco di marmo) suscitarono grande meraviglia. Sempre in quel documento Bertos era ricordato come «uomo celebre… solo nell’arte di simil genere», dove con ‘genere’ ci si riferiva, con ogni probabilità, proprio a quegli originalissimi gruppi a più figure, in lambiccate posizioni, che costituirono la specialità dello scultore, e che non ebbero – forse – alcun seguito; ma fu davvero così?
La preziosa, meritoria mostra ora in corso alle Gallerie d’Italia di Vicenza, La caduta degli angeli ribelli – Francesco Bertos (fino al 9 febbraio; catalogo a cura di Monica De Vincenti e Fernando Mazzocca) è costruita come un percorso culminante con l’esposizione ad effetto – ovvero con luci snervanti che crescono e decrescono, fino a lasciarti al buio; accompagnate da un allarme costante – dell’omonimo, leggendario gruppo marmoreo con una sessantina di figure ricavate sempre da un unico blocco (168 cm di altezza). Quest’impressionante tour de force di virtuosismo tecnico, che ebbe enorme fortuna in passato – fu anche oggetto di una conferenza del Melville di Moby Dick – viene citato per la prima volta nel 1744 in Palazzo Trento a Padova da un grande intellettuale e viaggiatore dell’Illuminismo, il medico fiorentino Antonio Cocchi, in un testo rimasto manoscritto, dove era riferito ad «Agostino Fasolato scultore padovano»; poi nella guida di Padova del 1765, indipendentemente da quella prima fonte, anche Rossetti ribadiva quell’attribuzione, che è stata respinta da De Vincenti e Simone Guerriero nel 2021, in occasione dell’esposizione della Caduta (oggi di proprietà delle Gallerie d’Italia) alla mostra Inferno delle Scuderie del Quirinale. Certo di quel Fasolato non è noto granché, ma cancellarlo del tutto dal dibattito critico, come è stato fatto in quest’occasione, è operazione discutibile: il mirabolante gruppo è chiaramente debitore in tutto e per tutto dal linguaggio di Bertos, e forse lui davvero ne fu l’autore, ma si tratta ancora di un’ipotesi attributiva, né è facile spiegare perché Cocchi e Rossetti dovessero inventarsi quel riferimento a Fasolato.
Sia come sia, la mostra di Vicenza è praticamente una monografica di Bertos, imperdibile per chiunque ami la scultura. Sono state riunite molte opere dell’artista, tanto in marmo quanto in bronzo, realizzate sempre «di un solo getto», ad attestare la grande perizia dell’artista anche nella scultura per via di porre, circostanza senz’altro rara. Purtroppo anche di quest’irregolare di genio – come del più modesto Fasolato – sappiamo sempre poco, perché di lui non ci rimane una biografia contemporanea: documentato dal 1709 al 1739, ne ignoriamo persino date di nascita e morte. Eppure egli fu artista di successo, chiamato a lavorare per Carlo Emanuele III di Savoia, a Torino, dove si conservano ancora suoi eccezionali gruppi in bronzo, prestati alla mostra di Vicenza. Altri più piccoli, sempre in bronzo, sono stati da poco scoperti presso la Soprintendenza di Milano, e sono la novità più clamorosa dell’esposizione, perché attestano come Bertos arrivasse a produrre quasi in serie i suoi spericolati gruppi, mettendo in piedi una bottega della cui attività ci sfugge ancora molto (vi passò il Fasolato?). Molto importanti sono anche le figure ispirate all’Antico, in marmo, attribuitegli da Charles Avery nel 2008, che offrono un’immagine sostanzialmente inedita dell’artista, immagine che Monica De Vincenti sta pian piano mettendo a fuoco.
È praticamente certo che Bertos si formasse a Padova, presso Giovanni Bonazza, un gigante del tardobarocco veneto, e la mostra propone un bell’accostamento tra il San Girolamo firmato di quest’ultimo (Padova, Biblioteca Universitaria) e un Fiume attribuito a Bertos (collezione privata). Ma rispetto al linguaggio tormentato e magmatico di Bonazza, quello del Nostro si caratterizza presto per la maggiore asciuttezza, anzi per uno spiccato grafismo. E questo dato emerge prepotente in mostra anche dal confronto fra i bronzi del fiorentino Foggini e quelli di Bertos, che fu a Firenze alla fine del 1709: rispetto al sontuoso barocco di quei capolavori, i gruppi del Veneziano appaiono macchinosi e gracili, quasi manieristi (suggestivo, infatti, anche il rimando a Giambologna, di cui è presentato il guizzante Mercurio del Bargello).
Di questi accenti neocinquecenteschi dello stile di Bertos si parla ampiamente nel catalogo, e in mostra sono opportunamente esposte alcune Piramidi di putti in bronzo di Nicolò Roccatagliata, di inizio Seicento; e magari anche qualcosa di Alessandro Vittoria o Tiziano Aspetti poteva essere messo utilmente accanto alle opere di Bertos.
Di fronte alle bizzarre invenzioni plastiche di questi, peraltro, il pensiero corre anche alle più capricciose tra le grottesche tardocinquecentesche, ed è per questo che trovare un parallelo allo scultore nella pittura contemporanea, come pure giustamente si cerca di fare in mostra, non è facile: il dialogo con Antonio Bellucci è solo di carattere compositivo o iconografico, e persino più flebile è quello con Sebastiano Ricci o Giambattista Tiepolo; funziona senz’altro meglio il parallelo con Giovanni Battista Pittoni, per l’allungamento delle figure e il loro carattere un po’ rudolfino, alla Spranger. Davvero parlante, invece, è quello con Giovanni Antonio Fumiani, e i suoi monocromi con Progetti per torciere degli Uffizi del 1702, che sembrerebbero proprio il punto di partenza per le acrobatiche invenzioni di Bertos: bellissimo è il confronto proposto in mostra.
Ma fatta questa eccezione, è sempre al Cinquecento che ci si deve rivolgere per trovare dei veri precedenti al linguaggio di Bertos: penso addirittura al Bambaia del Monumento di Gastone de Foix (1520 circa), di fronte al quale Vasari si chiedeva, proprio come l’estensore della descrizione della raccolta von der Schulenburg, «se è possibile che si facciano, con mano e con ferri, sì sottili e maravigliose opere». Ma penso anche a certe invenzioni di Lorenzo Costa, che evocavano a Roberto Longhi «un’invasione di cavallette»: la Caduta, che pure lascia stupefatti, è un po’ un guazzabuglio di cavallette impazzite.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento