Appena selezionata nella shortlist della 23/a edizione del prestigioso Prix Marcel Duchamp (insieme a Bouchra Khalili, Tarik Kiswanson e Massinissa Selmani) Bertille Bak (Arras, 1983) sbarca al Museo Maxxi di Roma, in una grande rassegna video. Bertille Bak. La giostra del reale (fino al 5 febbraio) consente di approfondire il suo lavoro centrato sui temi dello sfruttamento minorile, dell’inettitudine del consumismo, dell’intrattenimento a breve termine e della memoria familiare.

IN UN PERCORSO BRUCIANTE che l’ha vista vincitrice della terza edizione del Premio Merz (2019) e della residenza a Lens per la Collezione Pinault (2022), oltre alle innumerevoli partecipazioni a group show internazionali (Documenta 14 compresa) Bak, artista intensa e fuori dai cliché genderiali (è stata allieva di Christian Boltanski all’Ecole Nationale des Beaux-Arts di Parigi) è impigliata da sempre in uno screening increscioso sulla realtà contemporanea. In fondo, Bertille analizza il processo del capitalismo globale, il cinismo con cui accumula il plusvalore attraverso le diseguaglianze e lo sfruttamento. La sua è una ricerca sulle aporie della globalizzazione, sulla sua disfunzionalità e insostenibilità, che rende discutibile l’egemonia del modo di produzione dominante.

PER FAR QUESTO, l’artista si concentra sulla sua identità familiare sconfinando nel globale attraverso la partecipazione di comunità (temporanee o storiche) che sono schiacciate dal meccanismo produttivo capitalistico e che, in quanto «invisibili», trans-generazionalmente, ne sono egemonizzate, come in Le tour de Babel (2014), Transports à dos d’hommes (2012) o La brigada (2018).
Bertille Bak, i cui avi erano giunti dalla Polonia nel distretto Pas-de-Calais per cercare impiego nelle miniere di carbone, rimastica questa identità gravosa fin dai suoi primi video T’as de beaux vieux, tu sais (2007) in cui coinvolge perfino i nonni e Faire le mur (2008), fino a Tu redeviendras poussière (2017) incentrato sul racconto dei residenti di La Cité 5 a Barlin, città mineraria nel nord della Francia, mentre analizzano i propri livelli di silicosi nei polmoni (la malattia del lavoro che colpisce i minatori). Il video ruota intorno alle storie degli abitanti, sul ruolo ambiguo dei medici minerari nel determinare il livello di silice nei loro polmoni.

Da Mineur mineur

CIÒ CHE RISULTA AVVINCENTE è il processo che l’artista instaura nella realizzazione del video, inserendosi (corpo e anima) con i protagonisti stessi, in una narrazione anomala che, oltre a rendere fruibile il disperante plot, traccia con delicatezza la sua mise en scène. L’artista, infatti, ondivaga tra favola e realtà, senza ampollosità ma con un nerbo dissidente e resiliente. Ciò è evidente nel suo più recente Mineur Mineur (2022) organizzato su cinque video canali e realizzato con bambini costretti a estrarre argento dalle miniere in Bolivia, carbone in India, oro in Thailandia, stagno in Indonesia e zaffiri in Madagascar. Da una indagine di Save the Children sono circa 160 milioni i minori tra i 5 e i 17 anni, nelle maglie dello sfruttamento lavorativo, di cui quasi la metà costretti a svolgere mansioni dure e pericolose, che possono danneggiare la loro salute e il loro sviluppo psico-fisico. Dall’alba al crepuscolo, i piccoli vengono risucchiati in labirinti sotterranei, che attraversano agevolmente grazie alla loro esiguità fisica. Inghiottiti dal buio della terra, reiterano una routine abusiva e illecita, per risorgere nell’incanto di carillons dissonanti che Bak regala alla loro vituperata esistenza.

PIÙ METAFORICO è Bleus de travail (2020) che è una tragica favola su come la natura viene soggiogata dal business e che, evocano «l’usa e getta» in Marocco di pulcini variopinti, colorati dentro l’uovo, che vengono venduti ai turisti in cerca di loisir esotico. È anche al concetto di esotismo a cui Bak si appella, come in Usine à divertissement (2016), trittico che attraverso i vari protagonisti (donne di un villaggio del Rif marocchino, una tribù Lahu del nord della Thailandia e un gruppo della Camargue) vede trasformare la propria appartenenza in un congegno economico di sopravvivenza.
Le comunità, infatti, tendono a declinare il concetto di esotico in entertaining, seducendo quel turismo etnico che la globalizzazione ha reso il suo più stereotipizzante veicolo economico. E che, come saggiamente scrive Edward Said, fa risaltare la natura predatrice delle pratiche dell’Occidente la quale, nel definire, interpretare e valutare l’altro, «l’esotico», esplicita la sua vocazione a riaffermare la propria superiorità in asimmetrici rapporti di forza.