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Bernhard e l’ultimo quartetto di Beethoven

Bernhard e l’ultimo quartetto di BeethovenLudwig van Beethoven, Grosse Fuge

BISOGNAVA SAPERE che «Stilfs» è il paese di «Stelvio» nelle Alpi orientali, ma l’ho creduta Austria, un’ideale cittadina sotto vetro, da veliero in bottiglia. Tuttavia non cambia la sua essenza: […]

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 26 luglio 2020

BISOGNAVA SAPERE che «Stilfs» è il paese di «Stelvio» nelle Alpi orientali, ma l’ho creduta Austria, un’ideale cittadina sotto vetro, da veliero in bottiglia. Tuttavia non cambia la sua essenza: si tratta di una regione metafisica attorno a cui si avvolge l’odio, storico e inamovibile, di Bernhard. Il narratore ha fratelli e un servo; con essi coltiva un terreno in alta quota, un pezzo di terra che rende sempre meno e dove egli si è ritirato, meglio dove sempre è voluto rimanere, per odiare il mondo con più precisione e ammazzarsi di fatica. Vive il nostro narratore, fra gli spigoli rocciosi che lo circondano, nell’attesa che arrivi Midland, un inglese che ogni anno fa visita alla tomba della sorella, precipitata nell’Alz. Il racconto è in questo visitatore che interrompe i loro «esercizi spirituali a vita», uomo dotato di grande intelletto, bollente di propositi, provvisto dalla natura di una scorta poderosa di idee. Su di lui si dirige la tirade, che si annuncia in tutta la sua arringante amarezza, per finire nell’assoluta mancanza di senso del mondo. La prosa di Bernhard si muove nel nostro orecchio come un insieme disperante e assonanzato, in fondo qualcosa come l’ultimo quartetto di Beethoven (inavvicinabile al pari degli spigoli di roccia di Bernhard).
Thomas Bernhard, Midland a Stilfs, trad. G. Agabio, Adelphi, pp. 124, €12

NELLA POSTFAZIONE di Barenghi a La morte in banca (1959 con successive annessioni), veniva stabilita per la prosa di Pontiggia una linea di classicismo e atticismo, quindi di sobrietà, che era il correlato sicuro di un’opzione morale. E spesso l’idea della semplificazione stilistica, dell’antistilismo quale stile, viene opposta alla satira o al falsetto del Manierismo, inteso come un secondo o terzo grado della letteratura, quasi che l’artificio supremo non fosse piuttosto l’assenza di inflessioni (da mezzobusto con la mano posata sul Dop). Ultracorretto e uniforme come chi non vuole fare passi falsi, cauto per il timore di spezzare rami secchi, denotativo e naturalistico, Pontiggia ripulisce la frase e poi la pagina da qualsiasi scarto linguistico, crea una lingua che offre la minore resistenza possibile, tanto da apparire non scritta. I racconti efficaci non mancano (molto posteriori alla novella che dà il titolo al volume), per cui il fine dovrà coincidere con la sua storia, in definitiva con il suo contenuto. Questa scelta non sembra morale ma genuinamente tecnica, dal momento che non esistono contenuti morali, esistono semplicemente le cose e i loro rapporti.
Giuseppe Pontiggia, La morte in banca, Oscar Mondadori, pp. 200, €14

CERTO GIOVANE disk jockey si trasferisce a Berlino dopo esser stato ingiustamente accusato d’omicidio. Ha un blog che riempie di ineffabili scenette sul mondo tecnologico; termina, malgrado i suoi conati luddisti, gli studi in filosofia della tecnica e di qui, cooptato da un onnipotente dominus, comincia la sua irresistibile ascesa sviluppando una rete neurale che controlla il presente e il futuro dei desideri umani. Cadrà poi, forse, dalle altezze raggiunte? Mezzo migliaio di pagine sono troppe per aspettare una risposta, tanto sono puntigliose in un fenomeno chiarissimo: si annega in un mare di oggetti; e per decine, centinaia di facciate l’unica legge che si vede in azione è la tautologia, la nenia delle informazioni.
La noia protratta a dismisura potrebbe gratificare il libro di un senso insperato, tuttavia questo non succede. Essere informati, per un libro del genere, è tutto. Vi manca clamorosamente ogni fantasia. Questa parola, fantasia, può essere equivocata, perché che cosa c’è di più fantastico se non un realismo ingenuo, ovvero l’idea che la realtà sia tutta in luce e che basti descriverla o parafrasarla perché abbia senso? L’opera del narratore allora somiglia all’antica astuzia di Didone: circondare un vasto e vuoto territorio con una pelle di bue tagliata in strisce sottili.
Daniele Rielli, Odio, Mondadori, pp. 530, €20

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