Berlusconi vacilla e prende tempo. Meloni apre al Pd
Rinviato il vertice del centrodestra. Gianni Letta consiglia al leader di Fi di ritirarsi e di indicare l’ex presidente Bce
Rinviato il vertice del centrodestra. Gianni Letta consiglia al leader di Fi di ritirarsi e di indicare l’ex presidente Bce
Non è ancora pronto ad ammetterlo, forse neppure con se stesso. Ma probabilmente lo stesso Silvio Berlusconi sente che la partita stavolta è persa. Dunque prende tempo, resta a Milano, costringe gli alleati a far slittare il vertice previsto per oggi. Fino a quando? Forse domani, forse oltre. «Certamente entro la settimana», assicura un imbarazzato Salvini. A Arcore sono meno tassativi, ipotizzano un rinvio fino alla settimana prossima. Perché il Cavaliere è tentato dal provarci comunque: «Se il centrodestra tiene, i voti arrivano». Se ne dice convinto, di certo non vuol rinunciare a sperarci. Ma giocare la scommessa fino in fondo ha un prezzo ed è alto. Sia che Berlusconi esca dall’arena ancora prima di esserci entrato davvero sia che invece affronti la sconfitta in campo aperto il passo seguente non potrà che essere l’apertura del dialogo con le varie controparti, a partire dal Pd. Ma una cosa è cercare l’accordo con tutte le carte ancora in mano, tutt’altra partire dalla posizione di chi ha appena ricevuto una mazzata nelle urne. Forse per Berlusconi cambierebbe poco, per Matteo Salvini e Giorgia Meloni moltissimo. Dunque pressano come possono per vanificare la tattica del capo azzurro: rinviare sino a quando resterà una sola opzione aperta, affidandosi al verdetto dei grandi elettori.
GIORGIA MELONI, di fronte alla direzione del suo partito, fa un passo misurato ma inequivocabile: «Se la disponibilità di Berlusconi viene meno siamo pronti a formulare proposte per costruire una convergenza più ampia». Sempre su un nome di area centrodestra, aggiunge la leader di FdI, perché il mantra ripetuto ogni giorno, anche ieri, dall’alleato-rivale Salvini non può certo essere smentito. Ma la sorella d’Italia è politica troppo navigata per non sapere che parlare di convergenze ampie su un candidato d’area è una contraddizione. Il Pd, i 5 Stelle e LeU non potrebbero accettarlo. Il passo verso l’opzione del candidato condiviso non necessariamente d’area è dunque chiaro. Del resto i petali sui quali lavora Matteo Salvini appassiscono uno dopo l’altro: da Elisabetta Casellati a Letizia Moratti, da Marcello Pera a Pierferdinando Casini sono tutti indigesti sia per gli alleati che per la controparte.
A IMPORRE LA SOLUZIONE condivisa una volta uscito di scena Berlusconi, con Mario Draghi testa di serie assoluta, sarà la realtà stessa: la necessità di un presidente votato almeno da tutta la maggioranza, perché altrimenti la deflagrazione sarebbe inevitabile, la difficoltà per gli uni e per gli altri, molto vicina all’impossibilità, di inventarsi un nome capace di calamitare i consensi di tutti e persino di accordarsi su un candidato «di parte».
IL RINVIO DEL VERTICE del centrodestra imposto dal sofferente di Arcore serve anche a questo: per Berlusconi a trovare il modo di passare la mano conservando una posizione di forza, per l’intera destra a individuare una strategia comune. Gianni Letta consiglia a Berlusconi di fare lui il gran passo, indicando Draghi contestualmente all’annuncio del ritiro. Il diretto interessato convinto non è ma tentato sì. L’errore clamoroso di Giuseppe Conte, che ha fatto filtrare la notizia della contrarietà di gran parte dei pentastellati all’elezione al Quirinale dell’attuale premier, ha offerto alla destra un’occasione d’oro. Candidare Draghi bruciando sul tempo un Pd impastoiato dai dubbi interni e soprattutto dallo sgretolamento rovinoso dei 5S significherebbe far esplodere la coalizione di centrosinistra prima ancora che nasca e spaccare senza più possibilità d’appello il Movimento. L’irritazione alle stelle del Pd per lo svarione di Conte e del suo ufficio stampa, ieri, era più che eloquente. Tanto che l’ex premier deve provare a rimediare, in serata, assicurando che non c’è nessun veto su Draghi.
STESSO PROBLEMA si pone, in queste ore, Matteo Renzi. Il leader di Italia viva palleggia con due possibilità: cercare di imporsi come regista dell’operazione Draghi o puntare su Casini, il solo nome tra quelli considerati da Matteo Salvini che non faccia oggi parte dell’area del centrodestra. Per i centristi di ogni tonalità sarebbe certo un bel colpo ma il rischio che si riveli una pallottola a salve è alto e lo smacco per l’ex rottamatore sarebbe cocente.
Così, mentre l’ora della verità si avvicina, la domanda chiave che si profila è: chi candiderà Draghi, cercando di intestarsi l’operazione prima degli altri?
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