Berlusconi-Meloni, scontro senza esclusione di colpi
La resa dei conti tra i due leader Gli appunti del Cav sulla quasi premier: «Arrogante, offensiva». Lei: «Ma non ricattabile»
La resa dei conti tra i due leader Gli appunti del Cav sulla quasi premier: «Arrogante, offensiva». Lei: «Ma non ricattabile»
Crosetto ci prova a minimizzare: «È stata una scossa di assestamento». Invece non si è assestato niente, l’incidente non è chiuso e l’ira di Berlusconi nei confronti di Giorgia Meloni è pari solo all’irritazione della leader di FdI nei confronti del Cavaliere. Berlusconi insiste: nessun diritto di veto per la premier in pectore. Significa che, nonostante venga data ormai per spacciata, Licia Ronzulli è ancora in pista. Prima del suo probabilissimo ritiro dalla lista dei desiderata di Silvio, Meloni deve riconoscere il diritto di ogni partito di scegliersi i propri ministri. Per il Berlusconi umiliato nel giorno che avrebbe dovuto sancirne il trionfo la questione è di principio e non trattabile. Altrimenti si va avanti senza votare niente, avrebbe fatto capire.
Gli umori di Meloni sono altrettanto incandescenti. Per lo sgambetto tentato al Senato ma anche per quel giudizio su di lei messo nero su bianco dal sovrano di Arcore a uso privato e invece immortalato da uno zoom. Verdetto poco lusinghiero: «Supponente, prepotente, arrogante, offensiva. Nessuna disponibilità ai cambiamenti. Una con cui non si può andare d’accordo». E per fortuna che in extremis il severo Silvio aveva cancellato un ulteriore epiteto: «Ridicola». Il neopresidente del Senato La Russa prova a buttarla in bufala: «Penso che sia una fake news e che Berlusconi lo chiarisca presto». Non sarà accontentato.
Apparentemente l’oggetto di tante lodi la prende con filosofia. «Con Berlusconi ci parliamo domani», dice. «Lasciamo che la polvere si depositi», spiega ai suoi. Ma dietro le quinte la reazione è ben diversa. Meloni è furibonda, più ancora che per i giudizi sferzanti perché a suo parere quegli appunti provano quanto poco affidabile sia l’uomo che è stato il suo capo e il premier di un governo di cui lei faceva parte. E lasciando la camera, in serata, fa partire un siluro micidiale: «Tra i punti elencati su di me ne manca uno: non sono ricattabile».
Muro contro muro. La leader minaccia di tagliare fuori dal prossimo governo i senatori azzurri rei di non aver votato per La Russa. Verrebbero così eliminati forzisti già sulla porta di qualche ministero come Bernini e Gasparri. Certo la punizione si ammorbidirebbe qualora Berlusconi, «arrivasse a miti consigli». Cioè se rinunciasse una volta per tutte all’insistenza sul decidere da solo il nome dei suoi ministri e su quel ministero della Giustizia che la leader di Fdi intende assegnare a Carlo Nordio.
Il piano di battaglia di Meloni non è fatto solo di minacce. Da un lato rinsalda l’alleanza con Salvini, che ieri ha incontrato alla Camera: la candidatura di Giorgetti per l’Economia è ormai ufficiale ma per legare a sé il capo leghista l’ex nemica è pronta a concedere un pacchetto di ministeri ricco. Dall’altro lancia ponti a Tajani e quella metà di Fi che era contraria alla linea dello scontro.
La decisione di andare allo showdown sulla trincea Ronzulli, dettata dalla stessa Licia – ma anche da Casellati, Sisto e Occhiuto – Tajani in privato la definisce «demenziale». Anche più imbufalita è la famiglia del capo sconfitto. In particolare Marina, che aveva avvertito il padre della manovra in corso, l’arrivo del soccorso dall’opposizione, cercando di fermarlo. A Villa Grande è ricomparso anche Gianni Letta e l’indicazione che danno tutti è univoca: è Ronzulli a dover fare un passo indietro chiedendo al Cavaliere di non insistere. Ma le cose ormai sono andate molto oltre. Forse troppo. La resa dei conti si consumerà nell’elezione dei capigruppo, al Senato, con la stessa Ronzulli in campo contro Gasparri e Micciché, e soprattutto alla Camera, con Mulè e Cattaneo, area Ronzulli, che insidiano il capogruppo uscente Barelli, targato Tajani.
Certo, una Fi spaccata e traversata da rancori vicini al punto di deflagrazione ieri ha votato alla Camera Fontana senza ripetere la scena del Senato. Ma era una scelta obbligata, pena la morte del centrodestra e la spaccatura di Fi e comunque una quindicina di deputati, molti dei quali certamente azzurri, non si è uniformata all’ordine di scuderia. Dieci di loro, tanto per inviare un segnale chiaro, hanno vanificato il voto scrivendo Attilio, come il governatore lombardo, invece di Lorenzo. È anche vero che la minaccia di andare divisi alle consultazioni è stata stemperata. Ma sono spiragli poco significativi a fronte di una situazione nella quale Meloni arriva a dire chiaramente agli intimi: «Io sono pronta a tutto. Anche a tornare al voto».
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