«L’amor proprio – ha scritto La Rochefoucault – è l’amore di sé e di ogni cosa per sé. Esso rende gli uomini idolatri di se medesimi e li renderà tiranni degli altri se la fortuna gliene darà i mezzi» (Maximes, 1664). L’ipertrofia celebrativa che si è dispiegata nei funerali di Berlusconi è quanto lui stesso si aspettava. È una proiezione di questa aspettativa e un tributo che i suoi seguaci consapevolmente gli hanno offerto nella speranza di prolungare gli effetti del suo potere carismatico arginando i rischi di disgregazione. È il prolungamento e la manifestazione plastica non solo della sua mentalità e del suo stile populistico e plebiscitario, ma dell’attitudine padronale e dispotica con cui è entrato nella politica italiana e vi si è insediato. Anche in morte, il suo motto è stato o con me o contro di me, ispirato a un narcisismo malato, praticato dall’alto di un predominio mediatico invasivo e di uno strapotere economico esorbitante.

Anche Attila fu un grande. Come si legge su Wikipedia, «guerriero feroce, avido e crudele nell’area al tempo sotto Roma», ma «condottiero impavido e coraggioso nei paesi che facevano parte del suo impero». Tutto chiaro: si può essere personaggi importanti, senza essere personaggi positivi. Si può essere personaggi positivi per qualcuno, esecrabili per altri. Per decretare un lutto nazionale di tre giorni in suo onore ci sarebbe voluto un motivo per apprezzare le sue gesta, e che questo apprezzamento fosse, se non unanime, largamente condiviso.

Ci vuol poco a capire che non è questo il caso di Berlusconi. Basta aprire i giornali. Nessuno nega la rilevanza della sua figura, il suo peso nella storia dell’Italia contemporanea. Personalmente sono convinto – e l’ho scritto oltre un decennio fa – che Berlusconi possa intestarsi a buon diritto un’epoca, ma sotto quale segno? Il più benevolo degli appellativi meritati credo sia quello di apprendista stregone: uno che ha liberato mostri incontrollabili. Non la causa di tutti i mali, ma l’iniziatore di un ciclo infausto.

Sono i suoi laudatori a dircelo. Non vantano forse tra i suoi principali meriti di aver salvato l’Italia da un comunismo che non esisteva più (e che per quanto esisteva aveva dato un contributo decisivo alla costruzione di un’Italia più civile e democratica), di aver messo in discussione il paradigma antifascista rimettendo in gioco gli eredi del fascismo fin lì tollerati ma tenuti al margine (che oggi sono arrivati al vertice del potere)? Non si affannano a spiegarci che a lui dobbiamo l’avvento del bipolarismo? E che cosa vuol dire questo se non che ha inaugurato un’epoca in cui l’Italia è stata tagliata in due aree contrapposte, senza più le mediazioni di un tempo? Non fanno a gara nel dire che gli italiani si sono divisi in uno scontro senza fine tra adoratori e detrattori, deplorando tutto questo come frutto di faziosità preconcetta?

Tutti ricordano che questa è stata la realtà: folle plaudenti e pubblici estasiati da una parte, convegni, assemblee, articoli, libri, sit-in, flash mob contro di lui dall’altra. E tutti sanno bene che la realtà è ancora questa. Il rispetto per il lutto, la pietà per la sofferenza e la morte non hanno fatto difetto in nessuno, ma i giudizi sono stati opposti: ha reso l’Italia migliore, ha lasciato macerie politiche. Non solo. Berlusconi ha diviso e contrapposto violentemente le istituzioni, ha parlato dei magistrati come di disturbati mentali, ha imposto al Parlamento di avallare le sue invenzioni egiziane, ha incoraggiato l’evasione fiscale e l’ha praticata in proprio. Ce lo dicono in maggioranza i giornali stranieri: ha screditato il Paese portando le barzellette, le marachelle e le oscenità nei consessi internazionali proponendo una parte da kapò al capo della socialdemocrazia tedesca Schulz al punto da imbarazzare persino Gianfranco Fini, ora anche rievocando con nostalgia i brindisi alla vodka col despota russo.

Può bastare? È un’ovvietà: Berlusconi rappresenta una parte del Paese, non il sentimento universale della Nazione con la enne maiuscola. Non è la guida amata di tutti gli italiani. Il rinnovato disprezzo per Rosy Bindi che lo ha ricordato, è una spia di questo. E così la reazione scomposta dei suoi seguaci al gesto di disobbedienza civile di un Rettore. Qualificare come frutto di odio la manifestazione coerente e controcorrente del dissenso è un pericoloso segno di intolleranza. L’atto di imperio con cui il governo di destra ha imposto il sontuoso cerimoniale è l’ultimo affronto di Berlusconi al Paese che aveva detto di amare. Tradisce la convinzione secondo la quale se hai in mano le leve del potere, una parte – la tua – diventa il tutto. E questo è un problema. Non del passato, ma del presente e del futuro prossimo.