Berlusconi e Salvini chiudono la porta ai 5 Stelle
Crisi di governo La destra vede le urne
Mai più con i 5S. Silvio Berlusconi e Matteo Salvini si sentono al telefono, poi lo mettono giù nero su bianco: «Il centrodestra di governo prende atto che non è più possibile contare sul Movimento 5 Stelle».
È già chiarissimo ma la capogruppo al Senato Anna Maria Bernini decodifica ulteriormente: «Noi e i 5 Stelle siamo alternativi perché hanno dimostrato di anteporre gli interessi del partito a quelli del Paese».
Il Cavaliere ha dovuto faticare per convincere Salvini ad accontentarsi di questa formula: «Così sembra che vogliamo stare in maggioranza con il Pd». Il leader leghista avrebbe preferito una sintesi più brutale, qualcosa di molto vicino a un secco «Al voto, al voto!» ma Berlusconi ha insistito per toni più istituzionali. Tanto il merito non cambia e su quello, tra i due leader della «destra di governo», la convergenza è piena: si deve votare.
È la strada obliqua che l’uomo di Arcore ha imboccato già da giorni: governo sì ma Draghi bis senza Giuseppe Conte, nella certezza che a bloccare quella strada sarà lo stesso Mario Draghi ma anche che per lo stesso Pd non sarà facile accettare una formula che taglierebbe fuori, mettendolo alla porta, proprio il partito col quale ci si dovrebbe poi presentare in coalizione.
La reazione del Pd infatti è immediata e molto piccata: «Sono alleati strutturali di chi ogni giorno fa opposizione a Draghi. Se lo si vuole sostenere davvero si riparta dalla maggioranza che ha fatto nascere il governo».
Il no in prima battuta del Pd è in realtà un atto dovuto: se il premier dovesse accettare la formula della maggioranza senza 5S ogni resistenza si scioglierebbe come neve al sole.
Non che in Forza Italia tutti la pensino come il Cavaliere e puntino sul voto possibile.
Al contrario, le pressioni per accettare qualsiasi formula pur di proseguire con questo governo sono poderose. Martella la delegazione al governo, rende incandescente la linea telefonica Gianni Letta, si fa sentire a voce alta il Ppe, chiama anche il Colle.
Antonio Tajani, il numero due, è per difendere a ogni costo il governo. Una parte non insignificante degli azzurri è dello stesso avviso. Ma il sovrano, al quale spetta per definizione l’ultima parola, non si piega. Segue una logica semplice: un rigore a porta vuota lo si tira, punto e basta. Tanto più che i sondaggi vaticinano risultati straordinari per la destra e decisamente positivi per Forza Italia in caso di voto a ottobre.
Anche nella Lega l’opposizione governista ha smesso di puntare i piedi. Ieri mattina Salvini ha sentito tutti: i capigruppo, il ministro Giancarlo Giorgetti, i governatori del nord, quelli più preoccupati dalla prospettiva di una crisi economica senza più governo e senza più Draghi. Nella situazione data, però, non possono che affidarsi a Matteo Salvini, dandogli più o meno carta bianca.
Giorgetti in serata conferma: «Draghi non ha oggettivamente le condizioni per continuare».
Insomma, l’ultimo ostacolo sulla strada delle urne e di una vittoria facile è una retromarcia di Draghi non solo sulle dimissioni ma anche sull’asserzione perentoria della settimana scorsa: «Nessun governo senza i 5 Stelle».
Quell’ostacolo preoccupa ovviamente Giorgia Meloni ma non troppo: «Dubito che la crisi rientrerà. Non escludo che si possa convincere Draghi a restare ma non mi pare ci siano molti margini», afferma.
Anche se non lo dice apertamente, quel che la leader di Fratelli d’Italia teme è proprio il cedimento degli alleati: «Sarebbe molto grave se si prestassero a portare avanti questa legislatura col Pd».
Per questo Meloni scalpita: «I prossimi vertici devono tenersi in sedi istituzionali, con un ordine del giorno e decisioni finali. Non c’è più tempo da perdere con riunioni conviviali». È ora di passare all’azione.
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