Berlinguer e la grande ambizione della collettività perduta
Festa del Cinema di Roma In apertura il nuovo film di Andrea Segre, racconto di un’epoca e di un fare politica ormai scomparso. Elio Germano nel ruolo del segretario del Pci, l’Italia tra lotte e crisi
Festa del Cinema di Roma In apertura il nuovo film di Andrea Segre, racconto di un’epoca e di un fare politica ormai scomparso. Elio Germano nel ruolo del segretario del Pci, l’Italia tra lotte e crisi
La diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma è iniziata con la proiezione del film in concorso, Berlinguer – La grande ambizione (in sala dal 31 ottobre), quinto lungometraggio di Andrea Segre che, tra numerosi documentari e finzioni, per la prima volta si cimenta con il racconto biografico e, in particolare, con la vita di un uomo le cui parole e azioni sono parte fondante della nostra recente storia e forse, ancor più, di un immaginario da difendere in un’epoca nella quale si avverte il declino, se non il tracollo, della politica e dell’etica.
Fa rabbia e tristezza, vedere e ascoltare per circa due ore Enrico Berlinguer (interpretato da Elio Germano) all’indomani della prima spedizione di una nave militare italiana partita con sedici migranti a bordo e arrivata in Albania. Eppure è così. Sono bastati pochi decenni per seppellire definitivamente la grande ambizione. Anni nei quali è scomparsa la tensione verso il bene della collettività. E dunque dai compagni combattivi ed entusiasti delle fabbriche che chiedono come progredire, come realizzare l’eguaglianza, come impedire lo sfruttamento, come comportarsi nei confronti dell’Unione Sovietica (oggi che sembra quasi impossibile esprimersi su Israele), si è passati a trattare le persone come nudi corpi privati di identità e diritti. A leader, sostenuti dal consenso, che incarnano l’idea de L’État, c’est moi!.
Nel percorso cinematografico di Segre, Berlinguer – La grande ambizione rappresenta un passaggio quasi obbligato. Come se tutti gli incontri fatti in precedenza con i migranti e i lavoratori, da Marghera canale nord a Come un uomo sulla Terra, da Io sono Li a Welcome Venice, avessero trovato in Berlinguer la voce capace di accogliere istanze, comprendere traiettorie, cercare nuove direzioni.
Il regista nato a Dolo ha raccontato cinque anni cruciali, dal 1973 al 1978, dalla caduta di Salvador Allende in Cile, con la conseguente presa di coscienza che il Partito Comunista non avrebbe potuto governare nemmeno con il cinquantuno percento, al rapimento e omicidio di Aldo Moro, che segna il tramonto (senza una vera alba) del «compromesso storico».
UN QUINQUENNIO decisivo tanto per il segretario del Pci quanto per l’intero Paese, scosso da attentati nei treni e nelle piazze, da violenti conflitti per le strade dove perdevano la vita giovani donne e uomini che speravano di cambiare il mondo e non di perderlo. Eravamo sull’orlo di un baratro, tra tentativi di colpi di stato, soppressione delle libertà, eversioni, profonde crisi economiche, in mezzo a una Guerra Fredda e arsenali atomici pronti a mostrare la loro distruttiva potenza.
Non solo violenza, però. Perché in quel periodo le elezioni politiche e amministrative premiavano i comunisti italiani. Bandiere rosse sventolavano in festa, nonostante Papa Paolo VI, Giovanni Agnelli e Amintore Fanfani. Avversari e nemici non così temibili, a dire il vero, come quelli che provenivano da Ovest, anche se si nutrivano tiepide speranze per il nuovo presidente Jimmy Carter, e da Est, con i vertici sovietici che non tolleravano l’Eurocomunismo e tramavano contro l’italiano che parlava di democrazia.
Al di là della mimesi e della ricostruzione di un’epoca attraverso costumi e scenografie, il film rielabora per frammenti lo spirito di un tempo, non sempre riuscendo a evitare interventi eccessivamente didascalici, soprattutto in alcuni dialoghi che invece di rivelare una dimensione privata (e magari più tormentata), si limitano a spiegare lo stato delle cose.
Proprio in questi giorni è uscito nelle sale italiane Megalopolis di Francis Ford Coppola (evento di pre-apertura della Festa del Cinema di Roma e di Alice nella Città). Un film che insieme a Berlinguer – La grande ambizione spinge a riflettere, attraverso modalità cinematografiche decisamente diverse, sul senso dell’utopia in un frangente della pur modesta storia umana nella quale a prevalere è il distopico.
DA QUESTO punto di vista, i materiali d’archivio recuperati da Segre, le movenze di Germano, lo spettrale Roberto Citran che ridà vita ad Aldo Moro, unito alle fantasmagorie di Coppola, narrano di ideali che si ha il dovere di inseguire, di tempi futuri che si possono immaginare, di azioni volte a provocare il benessere del prossimo. E come canta Pierangelo Bertoli nel film: «Un’isola intera ha trovato nel mare una tomba, il falso progresso ha voluto provare una bomba, poi pioggia che toglie la sete alla terra che è viva, invece le porta la morte perché è radioattiva. Eppure il vento soffia ancora spruzza l’acqua alle navi sulla prora e sussurra canzoni tra le foglie e bacia i fiori li bacia e non li coglie».
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