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Berio, interviste a un faustiano tra concretezza e idea

Berio, interviste a un faustiano tra concretezza e ideaLuciano Berio negli anni sessanta, foto Erich Auerbach

Musica Novecento Teoricamente e tecnicamente agguerrito, Luciano Berio esce fuori dallo specialismo in «Interviste e colloqui», Einaudi: dal fermento euforico degli anni sessanta al finale «l’inconscio non mi interessa»

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 4 febbraio 2018

In Luciano Berio, figura centrale – non senza contrasti – nella ricerca musicale nel secondo Novecento, è anche di massimo rilievo l’attenzione mostrata alle nuove tecnologie nel campo elettronico e alle sperimentazioni acustiche: le une e le altre accolte con consapevolezza critica nel momento di metter mano alle partiture. Infine, non minore, il dialogo con la cultura letteraria e artistica con simpatie esperimentali e sensibilità politica: da Calvino a Eco, da Piano a Sanguineti. Tutto nasce con il fermento e con l’euforia degli anni sessanta e giunge a fine millennio con una consequenzialità ammirevole.
Per avere cognizione della sua attività su questo e altro, fin quando fu in vita occorreva rivolgersi soprattutto a riviste; postumi, avevano già fatto da ragguaglio due volumi einaudiani; Un ricordo al futuro. Lezioni americane (2006) e Scritti sulla musica (2013). Si sa tuttavia che per le esperienze teoricamente e tecnicamente più agguerrite il solo modo efficace a farle uscire fuori dal campo specialistico è quello delle interviste: ne è prova, per Berio stesso, l’Intervista sulla musica uscita nella famosa serie di Laterza nel 1981. Ora, in massima parte, si possono leggere in Interviste e colloqui (a cura di Vincenzina Caterina Ottomano, introduzione di Paul Griffiths, Einaudi, pp. XL-515, € 34,00: terzo volume, con i due già citati, del piano delle opere del Maestro a cura di Talia Pecker Berio).
Ciò che si noterà subito sarà la capacità di Berio nel tenere il punto: non cedere all’intervistatore e riportare il discorso ai suoi termini essenziali. Esemplarmente, nel rispondere a Umberto Eco (1986), dopo aver confessato il tratto «faustiano» del suo desiderio di «conoscere “sul campo” come funzionavano e come funzionano tutti i materiali della musica», Berio continuava: «la creatività è in ogni caso contraddittoria e deve potersi misurare su materiali, forme e contenuti diversi. Deve cioè potersi anche manifestare attraverso un insieme di esperienze coerentemente diversificate: solo così, penso, la creatività può diventare un discorso significativo nel mondo in cui vivo. Ti dico questo un po’ controvoglia perché, a differenza di voi filosofi, non sono portato a cercare disperatamente il prolungamento del senso di un’esperienza nel senso di un’altra esperienza e a trasferire l’insieme delle esperienze e del loro senso in un sistema». Provare e riprovare, così che, nonché «faustiano», Berio è un musicista «un po’ “savant” e un po’ “bricoleur”», tra concretezza e idea.
Che cosa sia la creazione in arte è interrogativo che attraversa molte interviste. È tema centrale del colloquio tra Berio, Renzo Piano e Tullio Regge (1995), dove – altro che atto individuale – la si dice bisognosa di dialogo, di interlocutori e di pubblico: i primi due «sono parte di un processo culturale ed evolutivo e, in uno Stato che funziona, di un progetto educativo» (col che si sottolinea la storica carenza, in Italia, di una adeguata educazione musicale negli ordini di studio: discorso antico e vero, che va di pari passo con quello sulla storia dell’arte); del terzo attore in scena: «ho spesso l’impressione che a buona parte del pubblico italiano di oggi non siamo stati dati i mezzi necessari per ascoltare, per capire e per avere desiderio di capire ciò che si ascolta». Dunque la creazione avviene in una specie di circuito comunitario, va condivisa con altri («la creazione non è un atto solitario», sottolinea a Theo Muller nello stesso anno). Nel 1996, rispondendo a Patrick Szersnovicz, Berio osservava: «la musica non può essere staccata dai gesti, dalle tecniche, e tuttavia non si esaurisce in essi. La musica deve poter insegnare agli uomini a scoprire e a creare relazioni tra dimensioni, caratteri ed elementi molto lontani fra loro. Mi interessa la musica che crea e sviluppa relazioni attraverso un percorso di trasformazioni molto ampio, come in passato le Variazioni Diabelli di Beethoven». Dunque, un discorso musicale che fuoriesce continuamente e volutamente da sé, e rientra alla fine nel parametro musicale.
In una delle ultime interviste (ad Antonio Gnoli, 2002), una breve risposta dice: «il concetto di fede mi è totalmente estraneo»; ma Berio aveva appena finito di scrivere Stanze, opera «nella quale l’idea di Dio è presente in diverse situazioni, stanze mentali», nelle pagine di vari poeti (tra i quali Caproni: magnifica la riproduzione degli appunti sul Congedo). Un’altra risposta: «l’inconscio non mi interessa». C’è molto Berio in questo, forse un materialismo freddo, forse altro che non si sa dire (e che si intravede nell’urto di spigoli che è il carteggio con Fedele d’Amico). Certo un rapporto fecondo con il passato. Alla domanda del «Questionario Proust» (1990) sull’occupazione preferita, la risposta non poteva che essere: «pensare la musica».

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