Esistono probabilmente due maniere di ritrarre gli uomini. Una è quella di guardarne la personalità dall’alto, come farebbe un cartografo con i rilievi montuosi o con il corso dei fiumi, dimodoché sotto questa luce uniforme, cruda perché in fondo indifferente, le loro azioni appaiano simili appunto a quei dossi e a quei ghiacciai che altro non sono se non vestigia di passioni spente: un materiale perfettamente limpido, perché supremamente cristallizzato. Forse questo genere di trattamento dovette suscitare un po’ di superstizioso timore in Voltaire quando, nella famosa lettera a Madame Necker, riportò la frase scherzosa dei contadini nel vedere lo scultore Pigalle, che doveva scolpirgli il ritratto, coi suoi arnesi da lavoro: «on va le disséquer».
Ma c’è un’altra maniera d’osservare gli uomini, e ricorda quella con cui erano visitate le opere del Louvre sotto l’Impero, quando le sale venivano attraversate di notte alla mobile fiammella delle torce: tutta questione di luce. Come in Solo ombre, la sua precedente raccolta di «silhouettes storiche, letterarie e mondane», anche in Forse è tutta questione di luce Ritratti e incontri (Salani, pp. 494, euro 22,00) – che invece attinge in parte all’altra raccolta Persona e maschera – Alvar González-Palacios insiste sul medesimo motivo dell’incidenza della luce: «la luce implicava una scoperta – si domanda l’autore –, un cambiamento di idee, di sentimenti? Ricordo oggi in un modo diverso persone che non sono più vicino a me in alcuni casi da cinquant’anni?».
In quei cinquant’anni González-Palacios ha conosciuto una grande vastità di mondo, dagli ultimi novecentisti dell’età dei giganti fino ai protagonisti dell’epoca, più convenzionale e dimessa, nella quale ci troviamo a vivere. Alcuni di questi li ha frequentati con grado maggiore, altri, come dice, con grado minore di intimità. In certi casi è stato il tempo a interporsi, in altri la distanza geografica o affettiva, in molti ancora la morte. Ma ciascuno di questi scarti o allontanamenti, di tempo, di luoghi, di vita, ha determinato nella fantasia dell’autore come uno sbattimento di luce. Alle volte non era il tempo o la distanza ma la lettura di qualche nuovo documento biografico, fino ad allora inedito, a provocarlo (come nel caso della pubblicazione del volume Mary Berenson, A Self-Portrait from her Diairies and Letters), o un incontro fortuito. Un’immagine, allora, s’aggiungeva all’altra, come una faccia a un prisma che determini una nuova forma del poliedro.
Nella misura perfetta dei suoi profili – misura che ne fa, almeno sotto l’aspetto della sapienza costruttiva, uno dei maggiori fra i nostri prosatori viventi – González-Palacios ha registrato tutti questi scuotimenti luminosi, senza essere tentato, come sarebbe forse capitato ad altri scrittori, d’amalgamare i termini opposti, di conciliarli in una prospettiva unica, spianando le contraddizioni o cristallizzandole in schemi logici e chiari. Giacché per lui l’animo umano non va osservato secondo un unico punto di fuga, come le sculture di Donatello, ma girandovi intorno come i capolavori del Bernini. Ed è questa maniera di guardare a porlo agli antipodi dei grandi moralisti, del genere del Sainte-Beuve, per i quali lo spirito non è che un desolato teatro di opposte passioni, le quali si danno battaglia come eserciti schierati, gli stendardi al vento. No: di Berenson, per esempio, egli dice al contrario che «come tutti gli esseri umani, siano essi amanuensi o geni, non era formato da una sola sostanza: l’anima è sempre un gioco di specchi; netta e traslucida è solo quella dei poveri di spirito o, più raramente, quella dei santi. La realtà è un’altra: mi riferisco alla realtà che qui dovrebbe interessare, quella soggettiva, ché quella obiettiva si sistema con facile semplificazione».
Anche altre figure, come quella di Longhi, di Bianchi Bandinelli o di Blunt («Forse non sono in grado – scrive – di dire ancora oggi chi fosse Anthony Blunt ma certamente non era una persona come tutte le altre. A volte poteva sembrare incomprensibile, altre remoto, altre vicino come lo sono i maestri e i grandi amici»), rimangono tali, densi grovigli d’ombre e di luce, simili alla figura di Cristo nella Cena di Emmaus del Rembrandt, senza che le falde della loro complessa personalità possano ordinarsi in una trasparenza, lucida e immota, come quella di un fossile.
Forse per questo l’autore preferisce rappresentare gli uomini fra i loro parafernali, i cari oggetti amati, nei quali, al pari che nelle piccole idiosincrasie, s’incarna, assai meglio che altrove, l’aspetto più propriamente individuale dall’anima. D’altra parte è innegabile che, come Schwob osservava a proposito di Svetonio, le persone si rivelano soprattutto nelle loro particolarità e manie, in quella minuta e fragilissima materia umana e aneddotica che non può essere né ordinata né interamente razionalizzata, ma che deve rimanere capricciosa ed effimera – come lo è il destino delle collezioni che verranno un giorno o l’altro date all’incanto – se vuol conservare la sua scintilla di verità.
Ecco allora gli oggetti ricomposti nella memoria, le case, le atmosfere – e il magnifico ritratto dedicato ad Enrico d’Assia ne è un fulgido esempio – chiamate a rendere quasi in un misterioso gioco negromantico l’anima dei trapassati: come in quel meraviglioso racconto di Villiers de l’Isle-Adam, Véra, dove la donna era morta, ma nella spazzola continuavano a comparire i suoi capelli, gli specchi talora si velavano come d’un alito soprannaturale, le lenzuola tiepide parevano attendere ancora il corpo della defunta. Pochi scrittori possono eguagliare la sapienza mostrata da Alvar González-Palacios in questi profili, composti, in parti eguali, di esperienza umana e di sensibilità estetica; e se la prima gli deriva dall’aver frequentato molte persone, nella seconda traspare la consuetudine dello storico ad evocare il modo di sentire di una particolare epoca da quel genere d’arte tanto spesso e tanto ingiustamente derubricata come minore; dimodoché nelle sue pagine, coniugandosi l’una e l’altra cosa, la predilezione per un motivo decorativo o la scelta d’alcuni arredi, che traspare dal fondo d’un ritratto, si riempiono di un caldo contenuto umano. Ma non era questo anche l’insegnamento d’un suo grande amico, Mario Praz, al quale è dedicato, inutile dirlo, un finissimo ritratto?