Cultura

Benjamin sul confine tra lavoro e amore

Benjamin sul confine tra lavoro e amore

Walter Benjamin Il testo di Maurice de Gandillac costituisce il primo confronto della filosofia francese con l’autore dei «Passages». Emergono temi che lo collocano nel solco della riflessione contemporanea sulla società del rischio

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 6 maggio 2015

La ricezione francese dell’opera di Walter Benjamin si lega alla prima traduzione che ne fece Maurice de Gondillac nel 1959 per conto dell’editore Juillard. Come quella italiana – l’epocale Angelus Novus del 1962 curata da Renato Solmi – anche l’edizione di de Gandillac si basava su una scelta dei saggi benjaminiani più importanti che Theodor W. Adorno aveva raccolto e pubblicato con Suhrkamp di Francoforte nei due volumi che portavano come titolo lapidario Schriften. Molto più dell’Italia, la Francia era quasi naturalmente predisposta ad accogliere un’operazione editoriale di questo tipo, non solo perché Parigi era stata luogo di asilo, sebbene non troppo ospitale, di Benjamin, non solo perché questi ne aveva amato e promosso la letteratura, ma anche perché, pensando soprattutto alle tormentate vicende editoriali dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ne aveva frequentato alcuni dei protagonisti: Raymond Aron, il grande sociologo direttore della sede parigina dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, sulla cui rivista vide la luce la prima versione del saggio; Pierre Klossowski, non solo traduttore di quest’ultimo, ma anche membro di quel Collegio di Sociologia di cui facevano parte Georges Bataille e Roger Caillois, ad alcune delle cui riunioni Benjamin era stato ammesso.

Il breve saggio che presentiamo alle lettrici e ai lettori de «il manifesto», qui tradotto per la prima volta in italiano, è il testo dell’intervento che de Gandillac tenne nel corso dell’importante convegno internazionale svoltosi a Parigi dal 27 al 29 giugno del 1983 e dedicato, non a caso, a «Walter Benjamin et Paris», i cui atti nel 1987 furono pubblicati dai tipi di Cerf.

Sono due i motivi d’interesse che spingono a pubblicare questo intervento: l’autore e l’interpretazione che dà della vita e dell’opera di Benjamin. Sebbene in Italia di de Gandillac non sia stato pubblicato nulla, il suo nome si lega a quello – questo sì molto più noto nei nostri ambienti culturali – di Gilles Deleuze. Esperto di filosofia antica e medioevale, de Gandillac fu direttore di tesi di Deleuze, di quella grande ricerca che conosciamo come Differenza e ripetizione. All’attività di ricerca univa quella infaticabile di traduttore dal tedesco: non solo Benjamin, ma, almeno per menzionare un altro, Nietzsche col suo Così parlò di Zarathoustra. Di tutti questi aspetti si ricorderà Deleuze quando, nel 1985, col saggio Les plages d’immanence, dedicherà un «sincero» e «rispettoso» omaggio ad uno dei suoi maestri più discreti e meno combattuti (si pensi alle rotture con Ferdinand Alquié e Jean Hyppolite). Quindi, un de Gandillac che si può arrivare a scoprire attraverso la mediazione d’eccezione di Deleuze.

Il secondo motivo d’interesse è rappresentato dall’interpretazione di Benjamin. Breve, ma folgorante. Come chiave di accesso de Gandillac usa una categoria che oggi più che mai serve a spiegare, non tanto, o almeno, non solo, l’opera benjaminiana, ma alcuni aspetti dell’esperienza sociale contemporanea: il passaggio. Se con il sociologo tedesco Ulrich Beck prima, e con Richard Sennet poi, riconosciamo che tanto l’assunzione dei rischi in ogni progetto decisivo della nostra vita quotidiana, quanto la dislocazione lavorativa sono fenomeni distintivi del nostro mondo sociale, allora, dobbiamo pensare che ognuno di essi è un passaggio: da una relazione affettiva ad un’altra (il rischio fallimentare immanente ad ogni convivenza o ad ogni matrimonio), da una città ad un’altra (il pendolarismo). Sebbene de Gandillac con grande finezza e acume pensi il passaggio benjaminiano nelle sue svariate e complesse forme, da quelle geografiche (dall’Europa all’America) a quelle mitiche (dal mondo umano a quello divino), da quelle linguistiche (traduzione come transito da una lingua ad un’altra) a quelle epistemologiche (dal tempo continuo al discontinuo), esse diventano per noi, oggi, metafore di quei passaggi continui a cui sono sottoposte alcune delle nostre principali esperienze sociali, quelle che determinano il nostro essere nel mondo: l’amore e il lavoro.

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