Visioni

Benjamin Kahn, «urliamo insieme per liberare il sé»

Sati Veyrunes in uno scatto da «Bless the Sound...»Sati Veyrunes in uno scatto da «Bless the Sound...» – Sandy Korzekwa

Danza Intervista al coreografo marsigliese, a Romaeuropa nell'ambito di Dancing days il suo nuovo lavoro "Bless the Sound that Saves a Witch Like Me" ispirato dal silenzio della pandemia

Pubblicato circa 16 ore faEdizione del 19 ottobre 2024

«Era un silenzio difficile per me da comprendere, ma allo stesso tempo aveva un carattere salvifico». Così Benjamin Kahn, coreografo marsigliese classe 1980, parla della pandemia di Covid e di quell’interruzione da cui ha preso vita il suo nuovo lavoro, Bless the Sound that Saves a Witch Like Me. Lo presenterà stasera a Romaeuropa festival nell’ambito di Dancing days, la rassegna di danza europea a cura di Francesca Manica, in corso fino a domenica. Protagonista è la danzatrice francese Sati Veyrunes, per cui Kahn ha creato appositamente il pezzo – «i miei lavori nascono da un incontro, lì c’è già tutta la politica: da dove si viene, come si è stati educati, a quale genere si appartiene», ci racconta in videochiamata – parte di una trilogia di «ritratti», iniziata con la performer di origini surinemesi Cherish Menzo. Al centro di Bless the Sound…, c’è l’atto del gridare e le sue molteplici implicazioni, che abbiamo approfondito nel corso della conversazione.

Benjamin Kahn, foto di Sophie Soukias

Il suo nuovo pezzo si ispira ad una protesta di un gruppo di donne nel New Jersey che nel 2020, in piena pandemia, si sono ritrovate in un parco per urlare insieme. Perché questo gesto l’ha colpita?

Il doversi fermare, in quel periodo, ha portato alla luce delle urgenze che prima erano coperte. Anche il mio processo creativo si è fermato, come la nostra relazione dominante con la natura e lo spazio. Il grido di queste donne mi ha fatto capire che lo scopo del pezzo era ascoltare il silenzio, sentirlo, all’interno di uno spazio di libertà che fosse collettivo. Il grido crea una crepa nello spazio-tempo, volevo condividere quel momento e soprattutto il silenzio che viene dopo, che ci connette con una dimensione più ampia rispetto a quella in cui ci troviamo. Facendo ricerche su questo tema, ho scoperto che a Guantanamo viene usata come tortura l’esposizione alla musica estrema per lunghi periodi di tempo, ma ad essere violento è soprattutto il silenzio che viene dopo. Così come, nella musica, la nota che arriva dopo una lunga pausa viene percepita in maniera enorme. Il primo solo che ho coreografato, Sorry but I feel slightly disidentified, riguardava la negoziazione dello spazio politico nel presente, mentre Bless the Sound… ha a che fare con qualcosa di atemporale. Mi sono chiesto, infatti, in quali posti siamo abitualmente autorizzati ad urlare. Ci è richiesto di isolarci, di andare lontano dalla città e dagli altri, tranne che in alcuni momenti particolari: l’infanzia e la protesta. L’urlo viene represso dal linguaggio perché appare come una regressione, un tratto animalesco. Ci sono pochi testi sul grido – mentre sul ridere, ad esempio, si sono interrogati autori come Bergson – ma l’urlo ci connette al respiro, ai nostri antenati, ci fa fuoriuscire dalla nostra condizione.

Nel titolo fa riferimento alla «strega» e all’aspetto salvifico del suono, può spiegarlo?

La parola strega viene molto utilizzata nel femminismo odierno, per me ha il senso di uno spazio «oscuro», oltre la razionalità. Nel pezzo c’è un sacrificio e una rinascita: abbiamo sempre urlato, riconnetterci a questo passato ci dà molto potere. Non riguarda la singola persona, infatti a gridare non è solo Saty Veyrunes in scena e anzi, vorrei che dopo lo spettacolo tutto il pubblico si sentisse autorizzato ad urlare. Non importa quale sia il viaggio, la visione o il motivo che li ha portati lì, vorrei che si sentissero in diritto di urlare, e che il grido del vicino dia ancora più forza. Si tratta di esporci, al di là della rabbia, delle regole sociali o delle rivendicazioni: il punto è entrare in contatto con qualcosa che è già in noi e che riguarda anche gli altri.

Qual è il collegamento con gli altri due lavori della trilogia?

La trilogia racconta diverse urgenze, legate alla personalità della danzatrice o del danzatore per cui ho composto il pezzo. Ho abbracciato Saty perché lei aveva questa necessità di «muovere» lo spazio, di modificarlo. L’ultimo capitolo, The blue hour, è invece dedicato a Theo Acremanne; per me rappresenta una generazione che deve trovare il desiderio di vivere senza avere uno scopo preciso. Per questo ho creato per lui uno spazio non ancora articolato, dove non c’è una prospettiva delineata.

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