Tra la città di Napoli e il pensiero filosofico del Novecento sembra esservi una qualche segreta affinità: pare che fu quando Sraffa gli chiese quale fosse la logica del gesto napoletano «me ne frego», che Wittgenstein comprese che l’analisi logica delle proposizioni era insufficiente a chiarire il modo di funzionamento del linguaggio umano. La limpidezza deduttiva del Tractatus era stata messa in crisi da quella fusione di gesto, senso ed espressione che caratterizza l’uso mediterraneo del linguaggio. Questa capacità partenopea di «compenetrare» alto e basso doveva segnare un’intera generazione di filosofi: Theodor Adorno, Siegfried Kracauer, Alfred Sohn-Rethel, ma soprattutto Asja Lacis e Walter Benjamin che si incontrarono nella Napoli degli anni ’20 per ritornarne trasformati.

Per questi giovani borghesi, abituati al rigore degli inverni brandeburghesi e al nitore affilato della fredda luce del nord, l’impatto con la realtà partenopea sarebbe stato dirompente. Adorno e Kracauer resteranno affascinati dai polpi venduti vivi al mercato, vedendo balenare in questa compenetrazione immediata di vita selvaggia e di merce l’allegoria più vivida del feticismo marxiano, che descrive la trasfigurazione del lavoro vivo in oggetto di scambio.

Sohn-Rethel, ispirato dal singolare approccio dei napoletani ai congegni della tecnica moderna, scriverà nel 1926 una breve nota sulla «filosofia del rotto». Così l’esperienza di Napoli doveva diventare per questi giovani pensatori borghesi un brusco tirocinio al materialismo dialettico. Non è allora un caso che, proprio a partire da questa esperienza napoletana, Benjamin scriva un testo che, oltre ad essere tra i più stilisticamente perfetti della sua produzione letteraria, concentra in nuce alcuni degli aspetti più peculiari del suo «materialismo storico», riverberandoli come immagini in un caleidoscopio.

Grazie alla piccola casa editrice-libreria Dante & Descartes è da poco disponibile una nuova edizione critica di questo piccolo gioiello della letteratura filosofica (Walter Benjamin, Asja Lacis, Napoli porosa, pp.70, euro 7). Il libretto, curato e tradotto da Elenio Cicchini, presenta ai lettori la prima versione del testo, quella del 1924, integrata di quelle parti successivamente stralciate da Benjamin e sino ad ora inedite in lingua italiana. Del curatore è anche la postfazione che, per quanto breve, riesce a offrire alcuni spunti di non secondario interesse per il lettore. In maniera tanto vivida quanto precisa viene qui chiarito quel concetto di «porosità» che sta al centro del testo e che ne impregna l’atmosfera: la «porosità» del tufo con cui e su cui la città di Napoli è costruita è allegoria di quella reciproca compenetrazione (Durchdringung) di alto e basso, di interno ed esterno, che doveva affascinare e influenzare tanto l’immaginazione filosofica di Benjamin, quanto la futura pratica teatrale di Asja.

Quel continuo ribaltamento tra sacro e profano, tra sfondo e proscenio, che anima la torbida vitalità dei «vichi» e delle «chiazze» napoletane, è la stessa «compenetrazione» tra «capelli e fango» e idee, da cui emerge quell’idea di materiale alla quale Benjamin lavorerà insistentemente fino al grande progetto sui Passages parigini. La stessa «permeabilità» di mediazione e immediatezza, propria dell’«immagine dialettica», sembra poter essere sensibilmente intuita nel turbine della città partenopea, «in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora»: gli elementi e gli oggetti del quotidiano appaiono qui, nella loro stessa immediatezza, come tracce archeologiche della storia naturale, trasfigurando così «il quotidiano come impenetrabile e l’impenetrabile come quotidiano».

Nella postfazione si accenna poi ad una possibile ascendenza del materialismo dialettico benjaminiano, che da Marx risale fino all’atomismo antico di Democrito e Leucippo. Già qui infatti troviamo quell’idea «porosa» di materialità, in cui non esistono «sostanze isolate, ma continue aggregazioni di atomi, le cui immagini penetrano l’anima producendo il pensiero». Una traccia quest’ultima che potrebbe indicare uno dei motivi di quella presunta mancanza di elaborazione dialettica che Adorno rimproverava all’amico Benjamin, sempre pronto a riferire il materiale «immediatamente», e nel suo «isolamento, a tendenze materiali e a lotte sociali», scavalcando così il duro lavoro del concetto e della mediazione. Ma forse solo così, riferendo direttamente l’immediatezza sensibile al suo contenuto sociale, Benjamin poteva riuscire, come forse nessun altro, ad estrarre dalle fessure del moderno e del quotidiano ogni possibile spiraglio di rivoluzione.