Benjamin Abel Meirhaege, nei miei «Madrigals»  sperimento un progetto di libertà
Benjamin Abel Meirhaege; una scena di Madrigals – Bart Van Merode
Visioni

Benjamin Abel Meirhaege, nei miei «Madrigals» sperimento un progetto di libertà

Intervista Il regista belga arriva per per la prima volta in Italia, il 27, nel cartellone di RomaEuropa con una traduzione al presente dell'opera di Monteverdi, realizzata insieme al musicista Doon/ Jesse Kanda
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 26 settembre 2022

Corpi nudi che si tengono per mano, a formare un cerchio attorno a un fuoco – vero – che arde in un braciere al centro della scena. Siamo in una caverna buia e misterica, all’inizio del mondo; siamo a Venezia nel 1638; siamo al Teatro Argentina di Roma nel 2022. Qui domani debutta per RomaEuropa Madrigals, ultimo lavoro di Benjamin Abel Meirhaege. Belga, classe 1995, cantante, regista, «aspirante controtenore», con un piglio fluido e super queer si muove morbido e gioioso tra musica, performing art e opera con l’intento di «liberarla, restituirla al presente».

Dopo aver debuttato all’Opera Ballet Vlaanderen di Anversa con The Revue nel 2022, gli è stata affidata la direzione musicale dell’Antwerp Toneelhuis, il più grande teatro municipale delle Fiandre, per i prossimi cinque anni: nel 2025 tornerà sul palco con una riscrittura dei Carmina Burana. Con Doon/ Jesse Kanda, artista e musicista giappo-canadese che ha lavorato, tra gli altri, con ARCA e Bjork ha riscritto, sul filo di una es- tradizione che è traduzione – da «trado», condurre – e sano e giusto tradimento, i Madrigali guerrieri et amorosi di Claudio Monteverdi. È la sua prima volta in Italia. Ci sentiamo poco prima del suo arrivo.

Come è iniziato il tuo rapporto con la scena?
Mi ha attirato molto fin da piccolo. Con mia madre andavo ai Puppets show, ho sempre ascoltato musica classica. Sono andato a una scuola superiore di teatro – in Belgio puoi fare il liceo con indirizzo teatrale – e poi mi sono iscritto all’Accademia di teatro a Mastricht, dove ho studiato performing arts. All’inizio l’idea era che io stessi sul palco, ma poi qualcosa è cambiato, ho voluto fare lavori più grandi, così sono passato alla regia. Poi c’è un’altra parte di me che fa musica, canta. Non ho studiato, non mi sono formato in alcun modo per farlo, ho solo sviluppato quello che mi piaceva fare.

Regista, performer, non ti definisci in nessun modo.

No, non amo le categorie.

Ci sono modelli a cui ti ispiri?

Mi sono ispirato ad alcuni grandi lavori di Ivo Dimchev, un giovane performer bulgaro. Adoro Romeo Castellucci per il suo grande teatro simbolico e imponente. Mi piace mischiare queste caratteristiche, cerco di muovermi in between.

Lavori con performer che quasi mai sono cantanti di opera professionisti e vengono da esperienze molto diverse tra loro. Sembra che tu voglia sempre rompere i canoni. Ci spieghi perché?

Credo di avere grandi affinità con la musica classica, con il canto, la voce ma non mi sono formato per questo. Non so leggere la musica né so assolutamente nulla di teoria. Quando ero adolescente andavo ai concerti di musica classica: volevo parlare con qualcuno di quell’ambiente ma sentivo sempre grandi resistenze. All’Opera mi sembrava di essere un alieno: ho voluto esplorare tutto questo insieme a altre persone che avevano affinità con questo genere di musica, al di là delle regole e dei canoni. Nel mio primo lavoro Revue ci sono degli alieni – perché è così che mi sento – che vengono dal futuro. Trovano un libretto di opera e lo mettono in scena come pensano che debba essere fatto. Lo stesso avviene in Madrigals. Facciamo Mozart e non sappiamo cosa sia un contro tenore, non sappiamo nulla. È iniziato tutto da qui. Una volta ebbi una discussione con una cantante che studiava musica classica. La ascoltai esibirsi e alla fine le dissi che non mi piaceva, perché non mi aveva emozionato. Lei scoppiò a piangere e disse: «Devo pensare a 13 cose contemporaneamente, devo leggere la musica e questo e questo. In realtà sono d’accordo con quello che hai detto tu». Penso che l’unica cosa che tu debba fare in quel momento è sentire il tuo corpo, la tua voce, il tuo talento e toccarci, toccare chi ti ascolta. Quindi lavoro con performers reali, con voci reali: credo che la musica classica e qualsiasi altro tipo di musica meriti di essere eseguita dai sentimenti e dalle emozioni.

In «Madrigals» usi elementi scenografici naturali, come il fuoco e le caverne, a tratti sembra un rito primordiale

Madrigals e Revue sono collegati tra loro. In Revue andiamo nel futuro mentre in Madrigals volevo andare agli inizi della storia umana: per questo abbiamo deciso di lavorare su Monteverdi. Fu uno dei primi compositori a iniziare una rivoluzione nel mondo dell’opera, è stato come un punto zero. A questo si è aggiunta la mia grande fascinazione per le caverne a Lascaux. Volevo connettere queste due cose su due livelli: abbiamo lavorato su degli inizi «primari» – vedrete Monteverdi nelle caverne. Gli artisti in scena non si conoscevano prima e sono molto diversi tra loro, per me è l’inizio di una nuova società. Oggi siamo tutti focalizzati nell’individuare e perseguire le differenze: volevo un nuovo inizio di individui che si uniscono, pur essendo diversi tra loro. E anche la musica è un mix di generi tra pop e classica.

Come è stata la collaborazione con Doon Kanda?

Abbiamo parlato molto e ascoltato musica. Ha un approccio così diverso dal mio nei confronti della musica. È stato molto interessante. Lui parte dalla musica pop. Quando ha ascoltato il Lamento della Ninfa ha detto: «È composta così bene che sembra un pezzo pop contemporaneo».

La tua riscrittura delle opere classiche è una sorta di liberazione della musica e dei corpi.

È un modo per liberare la musica e anche per pensare attraverso il tempo. Quello che fece Monteverdi all’epoca era così nuovo e dirompente in un mondo in cui tutto era incentrato su cristianità e temi affini. Con Jesse abbiamo cercato di fare lo stesso con la musica attraverso un collage di sonorità differenti. Il corpo è un altro dei temi che risponde a questa necessità di liberarsi, che si connette a questo elemento primitivo: i primi umani non si preoccupavano dei vestiti, condividevano emozioni e suoni per comunicare. È qualcosa che volevo sperimentare di nuovo. Per lo stesso motivo ho voluto lavorare con effetti naturali. Oggi usiamo tante macchine in scena che creano effetti artificiali, invece ho voluto un fuoco vero.

In Italia è molto difficile che a un artista così giovane vengano date produzioni importanti. A vedere la tua esperienza, sembra che in Belgio le cose vadano diversamente.

Io, assieme a qualche altro come me, rappresento un caso abbastanza unico ma in questi ultimi anni si cerca di portare i giovani artisti sui grandi palchi. C’è quest’aria nuova che tira.

Come si muove il pubblico e com’è il tuo pubblico?

Nei teatri piccoli abbiamo un pubblico giovane, nelle fondazioni persone più adulte, ma io lavoro per metterli insieme. So che la musica classica attrae gli adulti così «aggiusto» delle cose in modo che possa interessare anche i giovani.

È la prima volta in Italia. Cosa ti aspetti?

Siamo nervosi, ovviamente. Monteverdi è italiano, è un lavoro sulla tradizione e spero che il pubblico lo comprenda ma capirò se non è ancora il momento. Mi piacerebbe molto portare questo lavoro a Venezia, dove i Madrigali originali furono messi in scena per la prima volta e in un periodo in cui, come oggi, era in atto un grande conflitto. Violenze, devastazioni, persone in fuga. Gli italiani celebravano questa fantastica invenzione del Carnevale in cui tutti invece erano uguali. Credo che questo elemento della libertà appartenga molto all’opera e come artista mi rispecchia molto.

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