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Bendini, fertili antinomie di un’esistenziale neo-avanguardia

Bendini, fertili antinomie di un’esistenziale neo-avanguardiaVasco Bendini, Serie "Segni come Sogni", 1989/6c, Roma, collezione Valentini Bendini

A Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, "Vasco Bendini", a cura di Bruno Corà Originale interprete dell’Informale, ma anche fiancheggiatore delle correnti poveriste, «fra l’ansia riaffermata di essere e la volontà disperata d’annullarsi» (Francesco Arcangeli)

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 5 giugno 2022
Vasco Bendini, “Autoritratto”, 1946, Roma, collezione Santori Lettieri

Da qualche tempo la Galleria Nazionale d’Arte Moderna ha scelto di dare nuova visibilità ad alcuni talentuosi ma ingiustamente dimenticati animatori della neo-avanguardia italiana. Dopo il focus sul pittore, scenografo e compositore Franco Nonnis (1925-’91), il museo di Valle Giulia ha deciso di omaggiare – nell’anno del centenario della nascita – Vasco Bendini (1922-2015), personaggio non incasellabile in una precisa tendenza e dunque rimasto ai margini delle canoniche narrazioni storico-critiche, che in realtà si è rivelato un originale interprete della temperie informale e, a uno sguardo più attento, anche un autonomo fiancheggiatore delle correnti poveriste.
Figura dal profilo sfuggente, Bendini ha attraversato le tendenze del secondo Novecento riuscendo a proporsi come pittore – quindi come un artefice di immagini retiniche – e, allo stesso tempo, come demiurgo di più articolati dispositivi ambientali. Nell’arco della sua lunga carriera egli ha sperimentato tecniche, linguaggi e materiali – oltre alle tele e alle carte si è dimostrato propenso a utilizzare resine, plastiche, fogli di giornale, oggetti desunti dalla sfera domestica – e, non in ultimo, ha creato suggestivi environments (nel 1967, per la messa a punto dell’installazione Cabina solare, costruì in una sala di Palazzo Taverna a Roma una grande scatola di legno attraversabile dai visitatori dove, all’interno, inserì una fonte di luce artificiale capace di propagare calore ma anche inedite sensazioni olfattive).
Bendini ha quindi coltivato, in maniera lucida e consapevole, una propria peculiare «inattualità» sia precorrendo i tempi con opere «aperte» pensate per coinvolgere il pubblico, sia portando avanti un discorso tutto bidimensionale sulla pittura scaturito da un libero bisogno d’espressione (si pensi alla fedeltà a una astrazione d’ascendenza informale rivendicata ancora negli anni della maturità). Proprio attraverso queste feconde antinomie egli è riuscito a catalizzare l’attenzione di critici influenti come Rodolfo Pallucchini – che nel 1956 gli permise di partecipare alla sua prima Biennale di Venezia –, Maurizio Calvesi, Enrico Crispolti, Giulio Carlo Argan e Francesco Arcangeli il quale, in occasione della personale presso lo Studio Bentivoglio di Bologna nel 1967, a ragione captò nell’artista una «decisa polarità fra l’ansia riaffermata di essere e la volontà disperata d’annullarsi».
La mostra Vasco Bendini. Ombre prime (fino al 19 giugno) – ordinata alla Galleria Nazionale da Bruno Corà – valorizza le affascinanti contraddizioni che, sin dagli anni cinquanta, hanno alimentato il percorso dell’eclettico autore bolognese. Rispetto all’ultima retrospettiva organizzata al Macro di Roma a cura di Gabriele Simongini (2013) e incentrata sui precoci sconfinamenti ambientali del biennio 1966-’67, la presente antologica privilegia una riflessione sulle molteplici modalità con cui l’artista ha evocato e contaminato il medium più tradizionale della pittura.
Il pennello, da sempre, è stato utilizzato da Bendini come una sorta di sismografo del proprio io e, non a caso, in tutti i suoi dipinti si annida latente un senso di introspezione. Già nell’acerbo autoritratto di collezione privata (1946) – utilizzato come incipit della mostra – egli si rappresenta come un’entità evanescente e interlocutoria, con fattezze semplificate – quasi da icona religiosa – influenzate dal magistero di Virgilio Guidi e Giorgio Morandi, suoi insegnanti all’Accademia di Belle Arti di Bologna; in questa prova giovanile, inoltre, si intravede quella predisposizione, approfondita sullo scorcio degli anni cinquanta, a voler caricare di un valore esistenziale la superficie pittorica riportando su di essa concisi tratti grafici così da far emergere la traccia di un volto.
L’Informale bendiniano non ha assunto una facies unica ma, nel tempo, è stato declinato in un sistema tanto dialettico quanto vitale di soluzioni stilistiche: ecco dunque sussurrato un impulso ascetico, quasi francescano, a fare tabula rasa di ciò che di superfluo può affollare una tela o un foglio bianco; di contro, ecco declamato l’abbandono al potere lirico del segno, immesso in intricati e manieristici grovigli; e poi, ancora, ecco affermata una tessitura cromatica esile e rarefatta, composta di aloni, di moti luministici appena accennati; e, in apparente antitesi, ecco di nuovo l’immersione compiaciuta nel gorgo della materia. Il denominatore comune di risultati così dissonanti è stata la dedizione all’esercizio della pittura; e a ben vedere, anche nei lavori dilatati nello spazio e trasversalmente performativi egli non hai mai rinnegato l’assialità della visione frontale del quadro; esplicativa in tal senso è l’installazione Come è – presentata nel 1966 e replicata alla Quadriennale del 1973 – che invitava i visitatori a sedersi su un’umile sedia e a «rispecchiarsi» attraverso un telaio vuoto su cui era posto un microfono pronto a registrare i suoni emessi.
La mostra alla Galleria Nazionale offre, attraverso una significativa selezione di opere, un’idea efficace della multiforme sensibilità di Bendini; tuttavia, qualche pannello di sala in più avrebbe senz’altro giovato nel far comprendere – soprattutto al pubblico non specialista – l’alineare itinerario di artista teso a far convergere nel perimetro sacrale del manufatto classicamente inteso degli espliciti prelievi oggettuali. A tal proposito, comunque, viene attribuita giusta enfasi a un’opera nodale quale Ombre prime (1966) cui fa riferimento il titolo della mostra. Ed è proprio nel libero utilizzo di elementi quotidiani e banali – un telaio ligneo nudo e lacerato, delle sedie di paglia – poi diventati vessilli degli artisti di lì a breve supportati da Germano Celant, che si evidenzia la ricettività di Bendini nel cogliere e reinterpretare, alla vigilia del ’68 e da un osservatorio tutto personale, fermenti e codici linguistici poi divulgati con maggior fortuna dai rappresentanti dell’Arte Povera.

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