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Bence Fleigauf l’outsider

Bence Fleigauf l’outsider

Interviste Il grande spacciatore di sogni in pellicola nell'era più buia di Budapest

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 13 agosto 2016

A volte ritornano. È il caso dell’autodidatta Benedek ‘Bence’ Fliegauf che era già passato in Salento dodici anni fa con Dealer (2004), premiato per la regia anche a Wiesbaden, Mar Del Plata e dal pubblico della Berlinale. Allora il pubblico del Festival del Cinema Europeo aveva assistito al racconto ipnotico di uno spacciatore penitente che decide di far visita ai suoi clienti in un giorno di ordinaria follia in periferia. Ammirazione personale a parte, il cineasta ungherese classe ’74 ha da sempre negato la presenza di vasi comunicanti tra il suo cinema e quello del maestro e connazionale Béla Tarr. Ma quando Fliegauf paragona i clienti del pusher a degli astri danzanti, è difficile non pensare alla splendida pantomima dell’eclissi solare messa in scena da un gruppo di bevitori nel prologo di Le armonie di Werckmeister (2000). Ma la danza di Fliegauf è una danza filmica fatta di suoni e non di musica. Quel ronzio di fondo che avrebbe ispirato il regista magiaro nella realizzazione di Milky Way (2007). Sin dagli esordi, la Berlinale non mai smesso di elargire riconoscimenti a questo venditore di sogni filmici che aveva esordito al lungometraggio con l’ultrastatico Forest (2003), premiato con un Wolfgang Staudte Award. Poi, al momento giusto, Fliegauf è riuscito a spiazzare pubblico e critica con una sana incursione nel realismo. Premiato con un Orso d’argento, Just the Wind (2012) è il ritratto brutalmente naturalistico della giornata di una famiglia rom minacciata dalle ronde razziste nella grande pianura ungherese. Tre anni fa Fliegauf era stato avvistato in Toscana per presentare la prima retrospettiva italiana dei suoi film al Lucca Film Festival. Il ritorno a Lecce per presentare l’immaginifico Lilly Lane (2016) a Lecce è stato gradito da tutti, soprattutto dal cineasta ungherese che ha ritirato un meritatissimo Ulivo d’oro, in rappresentanza di un misterioso collettivo di rapaci dell’audiovisivo. Infine, anche in questa sede, vale la pena ricordare quanto l’orbanizzazione stia nuocendo alla cultura del suo paese.
Dealer (2013) è stato girato e montato con dei lunghissimi piani sequenza caratterizzati da una lentezza a dir poco agonizzante. Quanto Béla Tarr c’è nei primi fim che Lei ha girato?
Amo l’opera di Béla e mi dispiace che abbia gettato la spugna dietro la macchina da presa. Dobbiamo rassegnarci all’idea che non riusciremo mai a vedere l’estate nel suo cinema. Mentre scrivevo Dealer, sono arrivato a vedere Twilight (1990) di György Fehér anche tre volte a settimana. E il film piu ipnotico con cui mai abbia avuto a che fare come spettatore. Sono ancora vive in me le sensazioni dell’odore della ruggine sui tubi di ferro, le inquadrature congelate di Fehér, e il peso delle nuvole. E una pellicola che mi ha dato tanto.
Quanto c’e di morale nella scelta di piani-sequenza lenti e circolari? Etica gordiana o un mera questione di stile?
I movimenti circolari contribuiscono a creare l’impressione che i personaggi stiano galleggiando nello spazio filmico. I tossicodipendenti sembrano degli astronauti oppure dei pianeti che danzano al ritmo di una strana musica. Per me si tratta di sano realismo, perché è questo quello che siamo: cosmonauti che si librano nello spazio senza corda e speranza, ma pur sempre collegati l’uno all’altro nella realtà in cui viviamo. Per questo motivo, l’unica etichetta che sono disposto ad accettare per Dealer è quella di «space drama».
Milky Way (2007) è stato realizzato con un andare ancora piu lento. Sembra quasi un’installazione filmica da dare in pasto ai visitatori di in uno spazio espositivo. E stato difficile convincere gli attori ad accettare un ruolo da marionette?
Ho avuto la fortuna di lavorare con delle persone molto disponibili sul set. I non-attori devono capire la loro importanza come ingredient sul set. Mettersi a disposizione del regista è sinonimo di intelligenza e sensibilità.
Proprio per questo film si è parlato di «ambient cinema» sperimentale. «Milky Way» propone diversi livelli di attenzione nella visione senza gerarchie particolari. In che modo lei è stato influenzato dalle teorie musicali di Brian Eno?
Il termine ambient non ha niente a che vedere con la musica. E un film che può essere inteso come una manifestazione visiva di un grande ronzio sul quale ho cercato di sintonizzare la mia creatività. Un ronzio interiore accompagnato anche da un senso di attesa per la nascita di mio figlio. Ne è venuto fuori un film placido, al di là del bene e del male.
Potrebbe raccontarci come è nato il gruppo Raptor’s Kollektíva che lei ha contribuito a mettere insieme a Budapest?
«Il collettivo c’est moi». L’idea nasce da una riflessione sui titoli di coda di Dealer per i quali non volevo fare la figura del pretenzioso. Suoni, scenografia, casting, sceneggiatura e musica, era tutta farina del mio sacco. E cosi che molti credits sono stati assegnati alla sigla Raptor’s Kollektíva. All’inizio, dunque, ero l’unico membro del mio club, poi ho conosciuto il montatore Bálazs Budai e Tamás Beke per il suono, con i quali collaboro già da molto anni. Sono autodidatti proprio come me, e mi hanno raggiunto l’anno scorso in un appartamento a Berlino che mi è stato assegnato dal DAAD grazie ad una borsa di studio per artisti.
Agnieszka Holland e molti altri intellettuali polacchi hanno suonato il campanello di allarme riguardo ai lavori di «orbanizacja» in corso a Varsavia. Come vanno le cose in questo momento per voi artisti nella patria di Orbán?
Il Signor Orbán non ha tempo da perdere con l’arte perché è tutto preso dalla sua passione per il calcio. La scena del teatro sperimentale fa fatica ad andare avanti nel mio paese. Le ferite inflitte a questo settore non vengono mai a galla. È una situazione particolarmente ripugnante. Anche perché, per garantirne la sopravvivenza, Fidesz dovrebbe scucire dalle proprio tasche una somma che equivarrebbe a due centesimi di euro del budget annuale in Ungheria.
Pensi che si possa girare adesso un film -anti-Fidesz in Ungheria e vederlo distribuito nella sale del paese?
È un film che si chiama desiderio. E non vedo perché prima o poi non possa davvero accadere.
Il film «White God» (2014) di Kornél Mundruczó, dedicato alla memoria di Miklós Jancsó, può essere letto come un’allegoria dell’Ungheria di oggi. I cani rabbiosi e oppressi in fuga da un canile di Budapest sono i cittadini che si ribellano all’autoritarismo di Orban. Hai visto questo film?
Sì, l’ho visto. Mundruczó ha un talento innato nel girare scene di azione. Immaginare le masse di cani che schiumano di rabbia contro il potere, è un’interpretazione che mi sorprende. Non ho mai pensato che le minoranze possano essere raffigurate con una metafora di questo tipo sul grande schermo.
«Lilly Lane» (2016) sembra segnare una nuova direzione nel tuo lavoro. Il patto narrativo che proponi al pubblico è basato sulla sospensione dell’incredulità.
In una certa misura, è stato un progetto liberatorio per me. Danny crede nella favola inquietante raccontata da Rebeka, la madre, dall’inizio alla fine della storia. Girando un film come «Lilly Lane», è un po’ come se fossi riuscito ad abbattere quel castello immaginario che rischiava di diventare mentalmente una prigione per me.

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