Riconosciuto dalla comunità scientifica nella seconda metà degli anni Sessanta in seno alla progenie degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto, il concetto di trauma transgenerazionale si prestò a dare un nome e una diagnosi a sentimenti condivisi da più d’un gruppo sociale. Per chi, come gli afroamericani, ereditava da secoli geni intrisi di dolore fisico, emotivo e sociale, non parve affatto eccessivo parlare di trauma storico.
Bloodline Maintenance, album appena presentato dall’autore sui palchi italiani, dà a sua volta nome a un concetto che è da sempre motivo fondante della poetica di Ben Harper: epigenetica tradotta in musica, psicanalisi dell’Ur-Razzismo americano e delle sue cicatrici trasmesse di generazione in generazione.

DOPO ANNI di riletture e collaborazioni, la penna di Harper riacquista personalità e veemenza, riaccesa senz’altro dalla crisi, dalla perdita dell’amico Juan Nelson — bassista degli Innocent Criminals — e dal martirio di George Floyd, il cui respiro stroncato simboleggia l’agonia di un intero pianeta in Below Sea Level, ouverture e manifesto poetico dell’album: «A deep breath is all that’s left» canta Ben moltiplicando la propria voce in uno spazio spoglio e riverberante.
Il suo è innanzitutto un radicale appello rivolto a quell’America che si nasconde dietro Bibbia e bandiera per sottrarsi al discorso sulle nuove schiavitù: «You’re either a Christian or a racist, you can’t be both» taglia corto in We Need To Talk About It. Ma i suoi versi ambiscono a livelli sempre più universali affrontando anche l’incubo atomico (Where Did We Go Wrong) e le sperequazioni della ricchezza: quella del bicchiere mezzo vuoto, e comunque troppo piccolo (Problem Child), è tra le immagini più vivide di un album in cui personale e collettivo si rincorrono di traccia in traccia, cercando nell’amore un antidoto alla rassegnazione.

Lasciandosi aiutare solo per le sovraincisioni, l’artista erige l’impianto sonoro in totale autarchia, con onestà e schiettezza, qualità per le quali questo ritorno spicca rispetto alla produzione discografica degli ultimi mesi.

SONO PRESE di posizione sostenute da una musica che si fa anch’essa conservazione della stirpe risalendo lungo le linee genealogiche del funky e del rhythm and blues, guidata da un groove pastoso, trattenuto in percussioni scure che quasi mai gli concedono di aprirsi al classico rullante sul backbeat. Il cantato di Harper rievoca passi di Sam Cooke (More Than Love) e Otis Redding (Smile At The Mention) mentre Robert Johnson e Jimi Hendrix, al solito, fanno da guardiani al suono della sua chitarra, non meno personale della voce.
Lasciandosi aiutare solo per le sovraincisioni, l’artista erige l’impianto sonoro in totale autarchia, con onestà e schiettezza, qualità per le quali questo ritorno spicca rispetto alla produzione discografica degli ultimi mesi. Una sincerità che giunge al climax proprio sul finale: Maybe I Can’t è un incantesimo espresso su un ispiratissimo controcanto strumentale, una habanera tristemente blues. In definitiva, con Bloodline Maintenance Ben Harper riprende il suo percorso soggettivo esibendo le cicatrici di un passato ancestrale, un trauma storico la cui elaborazione non può più essere rimandata.
In questi giorni Harper sta affrontando un tour nel Belpaese, dopo Pescara sarà domani al Teatro Antico di Taormina, il 9 agosto al Parco dei Suoni di Riola Sardo (Or) per chiudere l’11 agosto alla festa di Radio Onda d’Urto a Brescia.