Belpoliti, una disturbante, suicida biografia dell’Occidente
Sociologia del presente Uno scopo per il quale vivere, morire, e far morire... «Chi sono i terroristi suicidi» di Marco Belpoliti, da Guanda, riflette sulla jihad islamica (e non solo), specchio di un’opulenza deideologizzata
Sociologia del presente Uno scopo per il quale vivere, morire, e far morire... «Chi sono i terroristi suicidi» di Marco Belpoliti, da Guanda, riflette sulla jihad islamica (e non solo), specchio di un’opulenza deideologizzata
«Nessuno vuole diventare un kamikaze o un killer animato da fantasie sterminatrici; tuttavia, in fondo, si desidera qualcosa di così importante nella propria vita da essere pronti a perderla. Non c’è più un sogno in Occidente, qualcosa per cui rinunciare al quieto vivere quotidiano: un ideale. Qualcosa che scuota e renda sanamente eccessivi». Una frase ambigua come lo sono le intuizioni essenziali, che non vuole essere un alibi né la spiegazione semplicistica di un fenomeno con ricadute complesse e origini ancora più articolate, ma che ha l’ambizione di affondare il dito in una piaga aperta: il rapporto tra il terrorismo islamista contemporaneo e la crisi di identità della cultura occidentale.
È precisamente il tema dell’eccesso, preso in prestito da un ciclo di trasmissioni radiofoniche dello psicoanalista britannico Adam Phillips, a costituire lo spunto, centrale e in qualche modo riassuntivo, delle riflessioni che Marco Belpoliti ha riversato in Chi sono i terroristi suicidi (Guanda «Le fenici rosse», pp. 124, euro 12,00): una raccolta di dieci articoli (o, per meglio dire, di «microsaggi») scritti tra il 2015 e il 2017, sull’onda degli attentati compiuti da sedicenti «uomini di fede» nel cuore dell’Europa, da Parigi a Bruxelles; una serie di contributi in libertà, dal sapore postmoderno, che ha l’obiettivo di ricostruire, con un occhio al clamoroso precedente dell’Undici Settembre, le ragioni (occulte) di una scelta che ai più pare insondabile: l’omicidio/suicidio a carattere politico-religioso. Un eccesso insano, per l’appunto, che trascina il discorso perfino al di là di un concetto come l’estremismo (che evoca sì l’adesione a una visione radicale della vita, senza tuttavia oltrepassarne i confini). Questa opzione chiama in causa l’elemento speculare del limite, ovvero del senso del limite: ancora più fragile in società deideologizzate o sulla via della deideologizzazione, in cui la progressiva assenza di uno scopo diverso dal mero intrattenimento si traduce, a talune condizioni, nella ricerca nevrotica di un principio forte per cui vivere e morire. Per cui morire e far morire. È il paradosso delle società senza ideali: sprovviste di significati alternativi, si scoprono incapaci di contrapporre argini al fanatismo, di opporgli dei modelli. Un eccesso che apre le porte all’eccesso contrario, come nella trama di Sottomissione di Michel Houellebecq, in cui l’élite intellettuale francese viene ritratta così priva di riferimenti da salutare con favore l’avvento di un regime islamista, in aperta rottura con la tradizione laica della République (il romanzo è citato non a caso da Belpoliti nelle prime pagine della raccolta).
Naturalmente, non si tratta dell’unico contribuito al dibattito. Altrettanto interessante è il parallelo tra l’affiliazione a Daech degli attentatori del Bataclan (Parigi, 13 novembre 2015) e la scelta di morte del dottor Ikuo Hayashi, medico d’età matura, autore, con altre quattro persone, dell’attacco a base di gas nervino alla metro di Tokyo (20 Marzo del 1995) e protagonista di un noto romanzo di Haruki Murakami, Underground. Il ragionamento di Belpoliti muove proprio dalla personalità di Hayashi: un uomo mite, abituato a prestare soccorso alle persone; ma fondamentalmente debole e caratterizzato da una spiccata propensione all’ordine, alla necessità di confini precisi. Un bisogno intercettato dal leder della setta degli Aum Shinrikyo, che lo convincerà a commettere l’insensata azione omicida. Un iter di avvicinamento al terrore che, al netto delle differenze culturali e geografiche, ricorda l’appiattimento di tanti giovani islamisti (perché di giovani si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi) alla parola dei reclutatori inviati dalle varie sigle dell’estremismo religioso organizzato. Un processo di «sottomissione» (il termine ritorna!) in cui il messaggio radicale diventa la risposta allo smarrimento, al timore nei confronti di una realtà troppo ricca di sollecitazioni. Anche questo, un tema familiare. Tanto che la lettura di Chi sono i terroristi suicidi lascia al lettore un’impressione disturbante, ma non inverosimile: che ci si trovi di fronte a una biografia dell’Occidente.
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