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Belpaese smemorato che alla tragedia preferisce la farsa

Belpaese smemorato che alla tragedia preferisce la farsaLa Scala, 1852 – foto archivio museo della Scala, Getty Images

Ballo in maschera Dopo le polemiche per l'urlo del loggionista alla Prima della Scala. Il Piermarini è sempre stato luogo di manifestazioni, dal Risorgimento al «Ricchi godete» di Capanna nel ’68

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 9 dicembre 2023

Come il coro è un elemento vitale di tante drammaturgie operistiche, la protesta corale è una delle componenti essenziali del colossal che va in scena ogni anno da quasi tre quarti di secolo in occasione dell’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala di Milano il 7 dicembre. Non parliamo del colossal allestito sul palcoscenico, quest’anno il Don Carlo di Verdi, ma del colossal che, nel teatro progettato da Giuseppe Piermarini in stile neoclassico, quello che per definizione celebra la ricchezza nei modi della sobrietà e della compostezza, sorta di quintessenza dell’anima della borghesia milanese, viene interpretato dalle istituzioni che escono dai loro palazzi, si riuniscono per qualche ora e, in una sfilata pseudocarnevalesca, si mescolano con il popolo.

L’INCONTRO quasi regolarmente produce frizioni, che di solito vengono lasciate sfogare nella piazza antistante il teatro, dietro transenne montate a distanza di sicurezza e oltre un cordone imponente di forze dell’ordine. Insomma le proteste vengono autorizzate ma in versione sterilizzata. Talvolta qualche slancio, di solito individuale, riesce a penetrare nel sancta sanctorum del teatro, come quest’anno la frase «Viva l’Italia antifascista» gridata da uno spettatore anonimo allo spegnersi delle luci in sala, subito dopo l’esecuzione dell’inno di Mameli, in direzione del palco reale dove, ironicamente (?) accanto alla senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, sedeva l’ex fascista Presidente del Senato Ignazio La Russa, già apostrofato dalla sezione Anpi del Piermarini e dalla Slc Cgil («I fascisti non sono graditi al Teatro alla Scala»). Prontamente quattro poliziotti della Digos hanno identificato lo spettatore come Marco Vizzardelli, giornalista sessantacinquenne e assiduo frequentatore del teatro, che l’ha «buttata sul ridere» spiegando che «avrebbero dovuto arrestarlo se avesse detto “viva l’Italia fascista”». «Si sono messi a ridere anche loro, ma mi hanno detto che dovevano fare così. E quindi mi hanno fotografato la carta d’identità», ha concluso il giornalista. La Questura di Milano ha poi precisato che l’identificazione «è stata effettuata quale ordinaria modalità di controllo preventivo per garantire la sicurezza della rappresentazione.

Nel corso del Novecento postbellico, il loggione è diventato perlopiù, accanto agli adescamenti raccontati da Arbasino, palco di sfida per i fan dell’una o dell’altra diva

L’INIZIATIVA non è stata assolutamente determinata dal contenuto della frase pronunciata, ma dalle particolari circostanze, considerate le manifestazioni di dissenso poste in essere nel pomeriggio in città e la diretta televisiva dell’evento che avrebbe potuto essere di stimolo per iniziative finalizzate a turbarne il regolare svolgimento». Insomma si è tentato per lo più di consentire a Milly Carlucci e Bruno Vespa di svolgere indisturbati il loro lavoro, in un racconto degli eventi degno di Giovannino Guareschi o di uno sketch del berlusconiano Drive in a cui sono mancate solo le risate registrate in coda.
Inutile scandalizzarsi più di tanto però, perché la cronaca dello smemorato Bel Paese ci insegna che le farse, soprattutto quelle messe in scena a ridosso dei colossal della Storia, ci sono sempre state e sono sempre state replicate volentieri, senza alcun timore del déjà-vu. Basti pensare alle proteste indipendentiste che durante il Risorgimento animavano lo stesso loggione in cui si trovava Vizzardelli, di cui troviamo traccia, sebbene lì il teatro sia un altro, all’inizio del film Senso del milanesissimo Luchino Visconti. Poi però, nel corso del Novecento postbellico, il loggione è diventato per lo più, in mezzo ai gaudenti adescamenti raccontati da Alberto Arbasino ne L’Anonimo lombardo, palcoscenico da cui lanciavano i loro giubili o i loro strali le consorterie dei fan dell’una o dell’altra diva (si pensi alla faida Callas-Tebaldi). Basti pensare al «Ricchi godete, questa sarà l’ultima volta» gridato il 7 dicembre dell’anno fatale 1968 in piazza della Scala al megafono da Mario Capanna: allora come ora andava in scena il Don Carlo di Verdi, ma pochi giorni prima una manifestazione di braccianti ad Avola, in provincia di Siracusa, era finita tragicamente nel sangue. Ma la tragedia, si sa, non è gradita al pubblico italico, che preferisce non ricordare rifugiandosi nei territori rassicuranti della farsa.

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