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Belfagor e altri fantasmi

Belfagor  e altri fantasmi«Belfagor ovvero il fantasma del Louvre» sceneggiato Rai del 1966

Ombre al Museo Divinità, presenza perturbante, diavolo medioevale... spettro ovunque!

Pubblicato più di un anno faEdizione del 10 giugno 2023

I nati nella prima metà del secolo scorso, già abbastanza grandicelli per non dover andare a letto dopo Carosello, com’era consuetudine di quella generazione in banco e nero, ma non certo tanto adulti da non farsi turbare i sogni da ciò che videro in televisione, ricorderanno la notte insonne, gli occhi sbarrati nel buio delle loro stanzette, vigili ad ogni ombra che balenava sui muri, dopo aver assistito alla prima puntata di Belfagor il fantasma del Louvre. La nera figura con l’indimenticabile maschera che celava il volto di una affascinante Juliette Gréco, compariva all’improvviso nelle oscure sale del famoso museo parigino. La trama, per sommi capi, fu poi ripresa da un film senza storia del 2001 con Sophie Marceau.

In realtà Belfagor è un’antica divinità semitica, ma la sua trasformazione in personaggio diabolico risale al medio evo, quando si è voluto (dovuto?) darne il nome ad uno dei tanti diavoli che infestavano l’immaginario dei credenti per cucirgli così addosso le storie che da sempre l’umanità attribuisce a se stessa come angelo caduto. La figura esercitò il suo fascino in ambito medioevale sin dal XII secolo passando poi dal celebre Belfagor l’arcidiavolo di Macchiavelli per approdare nella contemporaneità all’omonimo film di Ettore Scola ed alla canzone che Federico Fellini gli dedicò in Giulietta degli spiriti. Ed è, infatti, proprio a partire dalla statua della divinità Belfagor conservata al Louvre, che nello sceneggiato televisivo il fantasma viene chiamato con quel nome.

Ma nulla del fascino inquietante del Belfagor parigino sarebbe stato possibile senza il magistrale gioco di luce ed ombre che si alternano nelle auratiche stanze dell’antico museo. In esse la figura del fantasma sembra come animata, soprattutto nella sua ieratica immobilità, proprio dalla presenza dei chiaroscuri, che rendono così il personaggio decisamente perturbante. Freud nel suo celebre saggio del 1919 Das Unheimliche, dice che risultano perturbanti «i movimenti che sembrano essere prodotti da un pensiero diverso da quello comune, e perciò stesso percepiti come paurosi, estranei, misteriosi, inspiegabili, spesso con connotati soprannaturali».

Il padre della psicoanalisi basa il suo saggio sulle intuizioni di Ernst Jentsch che, studiando L’uomo di sabbia di E.T.A. Hoffman, dove troviamo l’automa Olympia, spiega chiaramente come suscitare nel lettore questo sentimento: «Uno dei procedimenti più sicuri per evocare facilmente l’inquietante estraneità», questa è la sua definizione di perturbante, «è portare il lettore a dubitare che una certa figura sia un essere vivente o un automa». Ed effettivamente, lo sapremo nel prosieguo della vicenda, la donna che veste la maschera di Belfagor sarà posseduta da una trance ipnotica che la trasformerà tragicamente in una sorta di automa.

Particolare interessante: tutta la vicenda di Belfagor viene agita da una misteriosa banda che si ispira alla Confraternita rinascimentale dei Rosa Croce alla ricerca, nei sotterranei del museo, di quello che viene definito, dal nome del noto alchimista, «metallo di Paracelso», prezioso e radioattivo insieme. Qui non abbiamo lo spazio per parlare dei Rosa Croce, alla cui visione palingenetica si ispirarono molti ermetisti cristiani nonché la Libera Muratoria, nata quasi due secoli dopo che il mitico fondatore Kristian Rosenkreut statuì l’Ordine rosacruciano. Tra i suoi insegnamenti esoterici vi sarebbe stato l’acronimo vitriol, che significa: «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», apoftegma basilare per la ricerca della Pietra Filosofale, il cui sigillo apparve però solo nel 1613, nel trattato Azoth di Basilio Valentino, un anno prima della pubblicazione dei manifesti rosacrociani.

Ma l’oscurità che avvolge il museo, e che per questo gioca un ruolo centrale in tutta la vicenda, è anche popolata di oggetti che si intravvedono nella penombra, che appaiono e scompaiono come fotogrammi a se stanti nel susseguirsi delle variazioni luminose, costellando le scene di una loro vita propria, affatto diversa da quella che ci appare nella piena luce del giorno. E qui ci viene in aiuto lo scrittore giapponese J. Tanizaki che, nel suo Libro d’Ombra, dice come l’oscurità sia anche il «luogo» per il ritrovamento dell’anima delle cose, della vita segreta degli oggetti, delle storie che un tempo li hanno portati in quei luoghi e che oggi, talmente familiari, li fa quasi scomparire alla vista rendendoli a loro volta fantasmatici, distanti.
Tanizaki propone così un’estetica della visione sottile a partire dalla penombra tipica delle case tradizionali giapponesi: «Costretti a vivere dentro vani caliginosi, i nostri antenati scoprirono la beltà nel suo stesso seno e, a poco a poco, impararono a usarla per fini estetici. La spoglia eleganza delle stanze giapponesi è fondata, per intero, sulle infinite gradazioni del buio. Stanze, già di per sé poco chiare, noi cerchiamo di renderle ancora più fosche, dilatando lo spazio sotto le gronde, o frapponendo talvolta, fra il buio interno e le naturali chiarità atmosferiche, lo schermo di una veranda. Del sole fulgente che brilla sul nostro giardino non ci raggiunge che uno spento riflesso, filtrato attraverso la carta opalescente dello shóji [porta, finestra o divisorio in legno e lattice N.d.A.]. Questa luce mitigata e indiretta è l’elemento estetico più importante della casa giapponese. Le sue gradazioni conferiscono, a ogni locale, una differente qualità di buio».

E dunque la quantità di buio coincide, in questa visione, con la sua qualità; come a dire che nell’ombra, figlia dell’oscurità e della luce, essenza ed esistenza, sono una cosa sola. Una prospettiva profondamente orientale, non duale, nella quale, alla logica del terzo escluso, si sostituisce quella del tertium datur. Non è forse questa l’essenza stessa dell’esperienza magica?

E allora, sembra interessante citare qui alcuni passi di un articolo apparso sull’Economist dell’aprile del 2020 a cura di Killian Fox, un giornalista che ha raccolto alcune interessanti testimonianze di fenomeni, potremmo dire paranormali, legati ad oggetti custoditi nel British Museum. In particolare ne riportiamo di seguito due che ci sembrano significative di una visione della natura intima di alcuni oggetti che denota come il nostro sguardo sia offuscato nel percepirne il potere simbolico. È ciò che il filosofo nigeriano Bayo Akomolafe sostiene quando dice che «l’umano più che un corpo o una specie è una postura dello sguardo» e ci invita a sostituire l’antropocene, oramai inaridito sulla supposta superiorità della specie umana sulle altre, con il suo Afrocene, che ci propone di tornare, o meglio di reinventare, una postura a-dualista, a uscire così da una monocultura percettiva per «farci crescere occhi sulla schiena». L’Afrocene non significa dunque il ritorno a Madre Africa ma la ricerca di una relazione diversa anche con gli oggetti della nostra quotidianità.

Un esempio letterario di questa percezione, certo illuminante dal punto di vista esistenziale, è quella che descrive lo scrittore J. Paulhan nel suo Le Claire et l’Obscure in occasione di un episodio apparentemente banale: rientrando di notte nel suo studio, per non svegliare la moglie che sta dormendo di un sonno che egli sa leggero, accende rapidamente la luce per dare un’occhiata e così orientarsi. Ma ecco che, in quel brevissimo lampo, gli oggetti che lo circondano, tanto familiari e scontati durante il giorno, gli appaiono improvvisamente altro. Le loro esistenze segrete, immobili, immerse nell’oscurità, abbagliate un solo momento e poi ripiombate nel buio, gli trasmettono una «curiosa rivelazione».

«Era come se io ritrovassi infine il mio studio, uno spazio perduto da oramai molto tempo: dimenticato, usato… eppure popolato da tanti piccoli oggetti – dico piccoli per amicizia – che per un sol giorno mi hanno incantato (a volte anche per un anno) e poi sono entrati nell’abitudinario, come un giardino che un tempo ci appariva inesauribile. E così è stato anche dell’amicizia, anch’essa andata. Solo morti sulle pareti! Una parata di mummie che una volta erano personalità attive, agitate, inquietanti, e che poi sono sbiadite come fiori secchi, come cotolette fredde. Si, ma ecco che, tutto a un tratto, si rianimano, ritrovano (se così posso dire) la loro verità. E, forse, se un vicino mi avesse intravisto, si sarebbe domandato chi fosse quello strano fantasma. Ma a me sembrava di esserlo stato sino a quel momento: ero esistito senza vivere veramente e solo in quel momento stavo diventando reale [traduzione dell’Autore]». E allora, chi il fantasma che si aggira per il Louvre, Belfagor o noi estranei a noi stessi?

Torniamo allora a Killian Fox ed al suo articolo sull’Economist che si titola significativamente Are ghosts haunting the British Museum?: «Una notte una guardia di sicurezza stava attraversando le gallerie africane e si fermò un attimo davanti alla figura di un cane a due teste. La guardia credeva che questo feticcio congolese in legno del XIX secolo, irto di chiodi di ferro grezzo, possedesse un potere misterioso. In quella particolare notte sentì un irresistibile impulso a puntare il dito contro di esso. Mentre lo faceva, gli allarmi antincendio nella galleria sono scattati. Pochi giorni dopo la guardia è tornata con il fratello: anche lui ha indicato il cane a due teste, di nuovo sono suonati gli allarmi».

Un altro episodio si riferisce a delle sfere luminose che hanno attratto l’attenzione della squadra di sicurezza durante la notte: «Intorno alle 3 del mattino è scattato l’allarme in un bagno per disabili e un paio di guardie si sono precipitate a controllare cosa stesse succedendo. Nulla di strano finché una guardia non ha ricevuto la chiamata dall’operatore delle telecamere di sorveglianza a circuito chiuso, che segnalava grandi sfere di luce bianca librarsi sopra una scala nella Great Court rincorrendosi l’un l’altra nell’aria».

La comparsa delle sfere ha coinciso con una mostra intitolata Germany: Memories of a Nation, che si è svolta da ottobre 2014 a gennaio 2015. La guardia che si è trovata tra le sfere di luce si chiedeva se potessero essere collegate a uno degli oggetti esposti: in particolare la sua intuizione si focalizzò su di un cancello in ferro battuto proveniente dal campo di concentramento di Buchenwald che recava ancora il motto «Jedem das Seine» (a ciascuno ciò che merita). «Quello era un oggetto che tratteneva un’energia vitale», spiegò la guardia, e ancora: «Non sarei davvero sorpreso se qualcuno sia deceduto attaccato a quel cancello. Non posso biasimarlo, a dire il vero. Sono felice di averlo qui». Le sfere sono apparse alla stessa ora ogni notte fino alla fine della mostra. La maggior parte, gli addetti alla sicurezza, continua Fox, sono persone molto pratiche che non si interessano certo di spiritismo, anzi, ma su una cosa sembrano tutti d’accordo: certi oggetti contengono una forma di energia. Questa è una formulazione apotropaica con la quale tutti si sentono a proprio agio.

Irving Finkel, curatore del dipartimento Medio Orientale del museo, studioso che passa il suo tempo a decifrare iscrizioni cuneiformi in sumerico e babilonese ricorda, in coerenza con questa visione, che la credenza in una qualche forma di persistenza spirituale dopo la morte è profondamente radicata nella psiche umana: «Il nostro attuale relativo scetticismo è un’anomalia» sostiene. Anche altri esponenti della gerarchia museale sono consapevoli del potere occulto di certi particolari oggetti. Ad esempio Jim Peters, responsabile delle collezioni nel dipartimento Gran Bretagna, Europa e Preistoria, sostiene che ci sono pezzi «non sincronizzati con il loro essere qui; se fossero nel contesto corretto, avrebbero ancora uno scopo». Questi, così li definisce, sono «gli oggetti inquieti».

Alcune persone toccano un particolare oggetto, specie quelli proibiti, spinti, si giustificano, da un irrefrenabile impulso. Continua Peters: «Avevano la sensazione che, quando lo toccavano, l’oggetto aprisse loro un canale con il passato che li metteva in reale connessione con persone vissute allora. Questa pietra, ad esempio, sappiamo dalle nostre ricerche che era stata portata da uno schiavo egiziano; ebbene molti ci dicono che toccarla è stato come toccare lui. In fondo, se ci pensiamo in momento, gli occhiali di tuo nonno, ad esempio, non sono solo lenti e montatura, sono un po’ tuo nonno, e non puoi buttarli via, perché sarebbe come buttare via una parte di lui».

D’altra parte il personale delle gallerie egizie vede spesso i devoti tentare di entrare in comunione con le statue di pietra nera di Sekhmet, la potente dea dalla testa di leone conosciuta come «colei che uccide», mentre alcuni visitatori cristiani tengono croci di legno o fiale di vetro accanto alle reliquie dei santi per incanalare le loro energie. Lissant Bolton, custode del dipartimento Africa, Oceania e Americhe racconta invece di visitatori che trattano gli oggetti della collezione «come identità viventi». Alcuni li considerano antenati. Un potente esempio incombe sull’ingresso della galleria Living and Dying, direttamente dietro la Great Court: Hoa Hakananai’a è la statua di quattro tonnellate di una figura umana scolpita nella roccia lavica, con occhi infossati, labbra socchiuse e un ventre prominente.

I Rapa Nui, gli indigeni dell’Isola di Pasqua – il cui governatore ha visitato il British Museum nel 2018 in occasione di una campagna per il ritorno della figura – la considerano una vera entità vivente. «Questa non è roccia», ha detto il presidente del Consiglio degli anziani di Rapa Nui, «Incarna lo spirito di un antenato, per questo vogliamo che venga restituito alla nostra isola». Tornando infine alle citazioni cinematografiche possiamo ricordare, a questo proposito, certo in salsa molto americana, la serie di film Una notte al museo. E allora, forse lo stesso Belfagor, tanto spaventoso quanto desideroso di attenzioni, non ha lasciato forse un piccolo segno della sua presenza nei nostri sogni? E queste reliquie di esperienze passate non avranno magari generato in noi curiosità attuali, la voglia di rivivere quei primi brividi che, da ragazzi, ci dicevano in fondo una sola cosa: che eravamo vivi?

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