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Beirut al cinema, il tempo di un ritorno

Beirut al cinema, il tempo di un ritornoBeirut, Encounter, di Borhane Alaouié

Il focus L'Alfilm Festival di Berlino presenta una panoramica di cinema arabo tra première e riscoperte

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 4 giugno 2022

La tredicesima edizione del Alfilm Festival di Berlino, cinema arabo tra première e riscoperte, ha dedicato il suo focus al Libano. «Dalla guerra civile al caos: tributo alla resistenza cinematografica», una raccolta che pone la lente filmica, su un paese, e in particolare la sua città, in perenne crisi e ricostruzione, fino al collasso economico e politico attuale a cui si giunge dopo l’assurda esplosione del 4 agosto 2020 al porto (242 vittime e più di 6500 feriti). Il cinema documenta e rielabora traumi ed esperienze, legati gli uni alle altre in un diabolico continuum; cerca di riannodare i fili della memoria di una società che vive di amnesie costanti.

Il percorso della rassegna, tra documentari e fiction, è frastagliato e la sua ossatura non può che essere quella di Beirut. Chi conosce la città libanese sa dell’intreccio causale, tragicomico, del suo passato coloniale in edifici meravigliosi e abbandonati, accanto a grattacieli moderni e vuoti, di simulacri di marciapiedi interrotti da improvvisi tranci di strade a quattro corsie (da recuperare al riguardo Le Cèdre et l’Acier di Valérie Vincent, 2017), del mare che non c’è, perché spesso non si riesce a scorgerlo e quindi a viverlo come veri discendenti dei fenici.

E proprio dal mare si può iniziare questo viaggio asincrono, come per la protagonista di The Sea Ahead di Ely Dagher, già presentato lo scorso anno nella Quinzaine di Cannes. La giovane Jana (Manal Issa) torna a Beirut dai genitori dopo un periodo trascorso a Parigi tra lavori saltuari e studi interrotti. Chiusa in un muto distacco, tra depressione e malinconia, senza ulteriori progetti, non rivela i motivi del suo arrivo né alla famiglia, né al ragazzo che frequentava. Il senso mancato di appartenenza a un luogo, la probabile non risolutiva fuga all’estero, assumono un valore politico, contemporaneo, di una generazione frustrata, rifratta sulle vie silenziose di una zona residenziale e di un mare disabitato ma voracemente presente.

Del 1981 e in versione restaurata è Beirut, Encounter di Borhane Alaouié girato durante la guerra civile ma senza mostrare nessuna esplosione o un singolo proiettile, tra fiction e documentario. La vita quotidiana scorre al di là della violenza per Zeina e Haidar, di estrazione sociale diversa, conosciutisi ai tempi dell’università e persi di vista a causa della guerra e della divisione della città, mentre cercano di rivedersi, prima che lei parta per gli Stati Uniti. Un realismo sobrio, senza melodrammi, eppure di sofferta tensione, come provano le voci dei due protagonisti registrate su cassette da scambiarsi. Un viaggio introspettivo, una catartica comunicazione a distanza che ispirò Wim Wenders (sua ammissione) per Paris, Texas nella lunga telefonata tra Travis e Jane. Anche se la guerra non si vede se ne scorgono le orme su Beirut; la frizione tra distruzione e ricostruzione e il parallelismo tra i cambiamenti della topografia e dei suoi abitanti cresciuti durante il conflitto sono al centro di Terra Incognita (2002) di Ghassan Salhab.

Un racconto corale di diversi personaggi le cui esistenze si incrociano: Soraya accompagna i turisti tra le rovine dei siti archeologici quasi sovrapposte a quelle recenti, vorrebbe andarsene o forse no, Leyla si aggira tra misticismo e ateismo, Nadim è un architetto alle prese con i progetti di ricostruzione ma esce a stento di casa, Tarek è tornato in città ma non ne è felice, il radio giornalista Haïdar osserva i fatti e meccanicamente li enuncia al microfono. Tutti sono in stallo, non guardano verso qualche direzione, né avanti, né tantomeno alle spalle e lo sfondo su cui si muovono è quello ben descritto da Simon El Habre nel documentario dello scorso anno Re- Destruction. Il regista riflette sulle politiche malsane e corrotte che hanno cambiato, spesso stravolto, quartieri e demografia per quattro decenni fino al disastro del porto.

I filmmakers libanesi del dopo guerra riesaminano il passato per portare nel dibattito pubblico le domande aperte sul senso di colpa e di una possibile redenzione. In Nos Guerres Imprudentes, documentario del 1995, la regista Randa Chahal Sabbag, la cui famiglia è stata militarmente e politicamente partecipe alla guerra civile, offre il suo punto di vista sulle vicende storiche che, a distanza di anni, non hanno trovato una narrazione oggettiva e condivisa. La Sabbag utilizza archivi, filmati privati e domestici dal 1975 al 1994, intervista la madre a Tripoli, la sorella a Parigi e il fratello a Beirut, passando dal tributo al padre morto durante la guerra e dalla distruzione ancora visibile in città. L’effetto finale è quello del racconto di tante guerre, parti in causa, ideologie, attori esterni e interni coinvolti.

Si filma mentre la storia accade come in L’Inganno (1981) di Volker Schlöndorff in cui Bruno Ganz è un giornalista tedesco incagliato nella guerra civile che di fronte al potere della falsificazione si pone domande sull’etica del suo lavoro. E quando la forza della memoria non basta giungono fotografie, audio cassette inviate come lettere d’amore dei genitori di Ahmed Ghossein autore del documentario My Father Is Still a Communist (2011) in cui porta alla luce una storia anche collettiva quanto i fasti del cinema libanese pre-guerra in Once Upon a Time, Beirut (1994) di Jocelyn Saab. Le adolescenti Yasmin e Leila in visita al cinefilo e collezionista Farouk scoprono film che le alfabetizzano a un passato sconosciuto e lontano. Una Beirut di celluloide più viva e prismatica del caramelloso e accomodante Memory Box (2021) di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige. Il presente torna e resta una condanna. L’amara ciliegina sulla torta sono tre cortometraggi del 2021 dedicati alla Beirut di oggi: A Declaration of War di Ely Dagher, Recovery di Jean- Claude Boulos, Struck di Sarah Kaskas, tutti visibili su Youtube.

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