Uno degli aspetti più affascinanti del patrimonio artistico medievale è da sempre la misteriosa simbologia delle figure non-convenzionali rappresentate nei capitelli e sui portali di chiese e palazzi (ma anche nelle migliaia di miniature dei manoscritti, che nessuno riuscirà mai a censire), soprattutto nel periodo di maggiore creatività dell’arte romanica, cioè nei secoli XI e XII che Francastel e Durand-Lefebvre definirono un «autentico Rinascimento» artistico, anche se negli ultimi tempi le periodizzazioni sono esposte a rivisitazioni disorganiche e contrastanti e perfino la definizione di «romanico» è tornata in discussione. Tutti ricordiamo il brano di Bernardo di Clairvaux, diventato di dominio popolare dopo che Umberto Eco lo ebbe citato nel suo Arte e bellezza nell’estetica medievale: scrivendo all’abate Guglielmo di Saint-Thierry, il severissimo cisterciense si lamentava della proliferazione di «mostri» nelle decorazioni delle chiese monastiche, pur confessandone l’irresistibile attrattività: «Cosa ci fanno nei monasteri, dinanzi ai frati che stanno leggendo, quella ridicola mostruosità, quella deforme bellezza, e bella deformità? A cosa servono lì le scimmie immonde, i feroci leoni, i mostruosi centauri, i mezzi uomini, le tigri maculate, i cavalieri in combattimento, i cacciatori che suonano le trombe? Sotto una testa unica si possono vedere molti corpi e viceversa in un solo corpo molte teste. Da una parte si nota una coda di serpente in un quadrupede, dall’altra una testa di quadrupede su un pesce, lì una bestia presenta l’aspetto di un cavallo, e si porta dietro mezza capra, qui un animale con le corna porta un cavallo nella parte posteriore. Tutta questa straordinaria varietà di forme diverse allora viene fuori perché piace di più leggere sui marmi che nei libri, e passare tutto il giorno contemplando ognuna di queste opere che meditando sulla legge di Dio. Se non ci si vergogna della frivolezza, perché almeno non ci si dispiace per la spesa?».
Per quanto popolato appaia questo catalogo di Bernardo, si tratta solo di un campione della folla di forme e di esseri che si affacciano nel linguaggio romanico (in parte traslato anche nel gotico) e che hanno massicciamente contribuito all’immaginario fantasy dei moderni: acrobati, sirene bicaudate, gazzelle e gigari, grifoni e orsi, fioroni e squame, urobori e leviatani, draghi e unicorni, scale e simplegmi, bibbioni e wak-wak; sono centinaia le figurazioni inconsuete e le scene e posizioni nelle quali vengono ritratte. Quasi sempre si tratta di figure preesistenti alla cultura cristiana, anche se in qualche caso risemantizzate da analogie bibliche (l’asina di Balaam, il mostro marino di Giona, l’albero della croce). Sotto l’effetto della fascinazione per il «fantastico» negli ultimi decenni si è assistito a una moltiplicazione di siti web, alcuni dei quali infestati da interpretazioni improbabili e accostamenti infondati, altri (come bestiary.ca) ricchi di informazioni accurate, raccolte di fonti latine (in particolare enciclopedie e bestiari) e gallerie di miniature da manoscritti e intagli medievali altrimenti introvabili.
Accanto a questi strumenti, per guidare i numerosi appassionati sono stati prodotti dizionari sempre più ampi, anche se inevitabilmente incompleti, e in Italia si è distinta in questa attenzione la Jaca Book, seguita negli ultimi anni dall’Einaudi: al Dizionario dei simboli del Medioevo di de Champeaux e Sterckx (appena ristampato) hanno fatto seguito, fra l’altro, il Lessico dei simboli medievali dello storico dell’arte strasburghese Olivier Beigbeder, seguito ora dalla ristampa del suo Dizionario dei simboli romanici uscito in Francia nel 1979, tradotto in italiano (Elio Robberto) dalla Jaca nell’88 e più volte riproposto fino a questa nuova edizione 2022 (pp. 384 non numerate, con 152 foto in bianco e nero e 111 disegni, € 50,00). Nella prefazione si anticipa che «un dizionario di questa fatta non potrà dare mai delle soluzioni perfettamente compiute e universalmente valide», riconoscendo l’inesauribilità del processo interpretativo e l’impossibilità di assegnare a una forma o personaggio un significato unico, nonostante che in siti e libri, lezioni su Youtube e dispense didattiche tutti noi continuiamo a spacciare asserzioni assolute (e perciò false) tipo «nel medioevo il lupo significa…». Beigbeder spiega che si possono fornire solo delle direttrici, senza alcuna garanzia, ricordando che gli iconografi ottocenteschi o protonovecenteschi (come Felicie d’Ayzac o Ernst Cassirer) fallirono sia quando si basavano su testimonianze nei testi (che però prima dell’epoca elettronica erano accessibili in misura ridottissima e quasi casuale) sia quando cercavano coerenza semantica in sistemi simbolici unitari.
Beigbeder cerca invece di sostituire le metodologie ambigue del passato con le grandi elaborazioni antropologiche del secondo Novecento (Lévi-Strauss) che si possono prestare a una comparazione preistoria-medioevo, perché si sofferma programmaticamente sul copioso materiale proveniente dagli edifici della Francia centro-meridionale e dalla Spagna settentrionale, a suo avviso comparabile con i dipinti preistorici presenti nelle grotte della stessa zona. Uno dei due criteri dichiarati è infatti la correlazione con i segni espressivi dell’arte primitiva (racemi, squame) e l’analisi della disposizione architettonica della decorazione, che nell’arte preistorica sembra una costante (stesse forme nelle stesse parti delle grotte) e che Beigbeder articola in «egiziana» (centrata su abside e circolo) e «mesopotamica» (su nartece, facciata, quadrato). Base teorica è la visione strutturalista secondo cui, in ambienti simili, pur senza possibilità di contatto si producono segni analoghi.
L’altro criterio è la composizione delle figure nella loro cornice, individuata nell’inquadramento della singola formella (seguendo la pista delle geometrie che Baltrušaitis rintraccia anche in raffigurazioni orientali o della «legge del quadro» di Focillon). Per questo il Dizionario dichiara di prescindere dall’immaginario biblico e allegorico che prende il sopravvento col gotico, e sceglie soprattutto lemmi naturalistici che più si prestano a una forza simbolica universale come Abbraccio, Acrobata, Anfisbena, Barba, Capigliatura, Coda, Cubo, Direzioni (destra e sinistra), Doppio, Ellisse, Foglia, Gallo, Intrecci, Losanga, Mandorla, Numeri, Pigna, Rosoni, Scimmia, Spirale, Triangolo, Vecchio, Zodiaco. Ma lavorare su analogie formali che si estendono dalle grotte all’arte assiro-babilonese comporta una rinuncia alla verifica storica che lascia sempre un margine di arbitrio. Di fatto alcune delle analisi più efficaci – come quelle dell’albero di Jesse (cioè la genealogia di Cristo) all’interno della voce Albero che costituisce una sorta di saggio interno, occupando 53 colonne – fanno largo uso non di accostamenti figurativi generici ma di precise fonti bibliche e relative interpretazioni patristiche. Le successive suggestioni dendrologiche da Mircea Eliade o Baltrušaitis non riescono a competere con la solidità dei richiami alla documentazione testuale culturalmente compatibile, dalle iscrizioni sui filatteri dei personaggi allo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais.
Nell’alternanza effettiva di fonti e di metodi, dunque, questo Dizionario si fa leggere con piacere come un unico grande saggio di applicazione all’arte «romanica» dell’antropologia simbolistica, temperata da un argine di iconologia culturale. Oggi nell’ermeneutica dell’arte medievale le suggestioni antropologiche sono meno presenti, a favore di considerazioni più sociologiche o materiali; ma quando si vuole arrivare alla comprensione del possibile significato di una scelta figurativa non ci si può sottrarre alla forte persistenza dell’iconologia panofskiana e delle sue salde basi testuali (Lena Liepe, The locus of meaning, 2019, ma anche i saggi migliori del Companion to Medieval Art diretto da Konrad Rudolph, stesso anno), sia pure accompagnata oggi da più fitti confronti con le risultanze dei reperti materiali coevi. Indipendentemente dall’oscillazione metodologica Beigbeder aveva visto bene quando sosteneva che «una totale comprensione degli aspetti simbolici degli animali e vegetali romanici sarà possibile quando tutti i precedenti (…) saranno risolti» e che «sarebbe stato forse interessante poter ricorrere a servigi di una macchina elettronica». Nel 1979 lo studio con ausilio informatico non era nemmeno pensabile; ma il suo progetto, in certo senso preterintenzionalmente warbughiano, rimane tanto più attuale: solo una immensa banca-dati che associ una repertoriazione quanto più ricca possibile di immagini da manoscritti, affreschi, dipinti, avori, reliquiari e tessuti incrociandola con tutte le comparazioni analoghe e con ogni possibile documentazione testuale di interpretazioni (ahimè, quasi sempre latine) dei simboli in esse contenuti, potrà avvicinarci con minore aleatorietà a ipotesi sul loro significato, liberandoci dall’incantamento pur sempre irresistibile di impressionismi, coincidenze casuali, richiami ancestrali e appelli archetipici.