Visioni

Befana per sempre

Befana per sempre

FemmineFolli Chi è la vecchia signora, l'amazzone su scopa che trascorre notti e giorni sui tetti. E perché non vogliamo dimenticarla, mai...

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 7 gennaio 2016

«La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte…» Già questo dettaglio me la fa stare simpatica: quale donna comune se ne fotterebbe di andare in giro con calzature non più adatte al contenimento delle preziose basi del corpo? Sicuramente una mattacchiona e la Befana direi che è il simbolo pieno della categoria delle squinternate indifferenti dell’estetica, selvatiche e irruente amazzoni della notte (che piacciono a me e alle quali spesso rassomiglio).

Ho creduto alla Befana molto a lungo, ben oltre i limiti della decenza (indossavo minigonne e osavo mal riusciti tentativi con l’ombretto blu sulle palpebre). Nella nostra famiglia la tradizione era che i regali li portava la Befana il 6 gennaio, alla fine delle feste, e non, come a tutti gli altri, la notte della vigilia di Natale quel ciccione con la barba bianca e il pigiamone rosso che mi sembrava più ridicolo che altro. Ricordo il luogo esatto, al Pincio, in cui mio padre aveva appuntamento ogni anno per dare la mia letterina alla vecchierella. Non mi ha mai deluso, ascoltava le mie richieste e le esaudiva: il top è stato la casa di Barbie, una costruzione a più piani con ascensore, lusso puro.

Ci credevo così tanto che ero pronta a battermi per lei: a scuola inneggiavo la sua esistenza meglio di un adepto di Rajeenesh votato al proselitismo; venivo dileggiata ma me ne infischiavo, per me era più bello credere a una vecchietta brutta, vestita di stracci, che volava sulla scopa fino a casa mia una volta l’anno portandomi doni, piuttosto che lasciarmi soggiogare dalla legge del più forte e far svanire in un puff i miei sogni di bambina.

Uno degli ultimi 5 gennaio avevo convinto la mia cuginetta francese, ospite da noi, a fare i turni per restare sveglie: coglierla in flagrante avrebbe confermato il mio trovarmi nel giusto e sbugiardato finalmente quei vili arroganti dei miei compagni di classe. Dovevamo dormire venti minuti ciascuna a rotazione: all’inizio ha funzionato, occhi spalancati su chiacchiere eccitate, presto però siamo crollate entrambe. Al mattino, con mio disappunto, ho trovato il bicchiere di latte consumato a metà, le briciole dei biscotti che le avevo lasciato e un gradito pacco enorme: neppure questa strategia aveva funzionato e continuavo a malmostare nello sfocato limbo della mancata accettazione di sé, della crescita inevitabile e dura.

Non ricordo esattamente come mi cavai dall’impaccio e finii per accettare che mio padre nei giardini del Pincio incontrava sua madre, mia nonna Maria, fresca di parrucchiere, con una fantastica acconciatura dalle sfumature bluastre che la rendevano di certo un po’ magica, e che mia madre conservava tutte le mie letterine in una cartellina turchese con su scritto il mio nome; sta di fatto che a una certa non ben precisata età dovetti accettare la realtà dei fatti che mi attanagliò alla gola facendomi essere certa di una cosa nella vita: mio figlio o mia figlia avrebbero vissuto questo sogno a lungo nella sua vita come, da privilegiata, era accaduto a me. (Mai fui abbandonata dalla oscura paranoia di finire proprio come lei…)

fabianasargentini@alice.​it

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