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Beckett, stenografare il vissuto per voce altrui

Beckett, stenografare il vissuto per voce altruiL’attrice britannica Brenda Bruce in una scena di Giorni felici di Samuel Beckett al Royal Court Theatre di Londra, 30 dicembre 1962. Foto Evening Standard / Hulton Archive / Getty Images

Classici del Novecento Il curatore di questo Meridiano di «Opere scelte», Gabriele Frasca, dà rilievo all’approccio orale di Samuel Beckett, e all’influenza degli studi di Parry sulla formularità omerica nella Parigi degli anni venti

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 19 novembre 2023

Parigi, 31 maggio 1928: il mondo accademico viene catturato da una tesi sorprendente: L’Épithète traditionnelle dans Homère, la tesi di Master principale di Milman Parry, la cui dissertazione si tiene nella monumentale Sala Louis Liard della Sorbona, sembra voler mettere fine alla vessata «questione omerica». È il 1924 quando il giovane Parry giunge a Parigi da Berkeley, dove appena un anno prima ha depositato la sua tesi di laurea con l’intuizione, in nuce, riguardante gli epiteti che intessono i due poemi («Achille piè veloce», «Atena occhi azzurri», «Aurora dalle dita di rosa»…). Egli li considera ‘ornamentali’ e alla base del continuum ritmico-metrico dell’epica: ritiene cioè che abbiano un valore semantico secondario ma che riescano a definire lo status eroico dei personaggi attingendo a un’intera tradizione poetica che mette in filigrana il mondo in cui si radicano. «La dizione formulare – scrive Parry – non è un espediente di comodo, ma il massimo sviluppo dell’esametro per raccontare le storie eroiche di un popolo». Così dimostra che i poemi omerici sono il prodotto di una civiltà, non l’invenzione di un singolo, e che la composizione formulare sottende un testo mobile adatto alla recitazione orale.
Rientrato in America, ad Harvard, e sulla scorta delle osservazioni dell’eminente linguista Antoine Meillet, Parry riflette sulla paratassi omerica che si adagia sull’accumulazione del parlato piuttosto che sull’intricata architettura sintattica del discorso scritto. Alla discussione in Sorbona – lo ha voluto Meillet – era presente anche Matija Murko, esperto di epica jugoslava e ispiratore degli ulteriori passi di Parry sulle orme dei guslar balcanici. Un viaggio (due, in realtà) da cui il classicista, e il giovane assistente Lord, traggono i capisaldi per provare la matrice tutta orale dell’epica. Ma è negli anni parigini che Parry acquisisce un modus operandi, soprattutto grazie alla guida dei mentori e all’atmosfera incandescente della città.
La Parigi degli Années folles è città all’avanguardia, e delle avanguardie. Vi trova posto la Lost Generation di Gertrude Stein, nel cui salotto di Rue de Fleurus si raccolgono scrittori e poeti come Ernest Hemingway, Sherwood Anderson, Francis Scott Fitzgerald e Ezra Pound, o artisti del calibro di Picasso, Braque e Matisse. Nella Ville Lumière, lo stesso Pound cementa il sodalizio con T.S. Eliot architettando i tagli alla Waste Land; James Joyce trova accoglienza per l’Ulisse grazie a Sylvia Beach; i surrealisti infuriano, Le Corbusier sperimenta nuovi parametri architettonici, Debussy rivoluziona la musica, cinema e teatro sono in pieno rivolgimento. È la città fervente descritta dall’ucraina Irène Némirovsky, dove però si annida un tarlo che corrode il vitalismo sfrenato degli anni post Prima guerra mondiale con il suo carico di morti, lutti e insensatezza. Il mondo si apre al nuovo, ma l’imprevisto genera sgomento e un grande senso di fragilità. Si schiudono gli abissi dell’inconscio e al cuore della fisica si accasa un demone che polverizza la realtà lasciando l’uomo in balia del vuoto. Sono anni densi, brillanti e taurini, in tutti i campi del sapere, ma l’orizzonte sguscia livido per chi tenta di testimoniare il presente attraverso un nuovo linguaggio, dove il grande racconto del mondo si frange e sposa la poetica del frammento.
È questo il milieu in cui si affaccia il giovane Samuel Beckett, di cui ora esce il «Meridiano», tradotto e ottimamente curato da Gabriele Frasca: Romanzi, Teatro e Televisione (Mondadori, pp. CXXVI-1801, euro 80,00).
Beckett arriva a Parigi il 1° novembre 1928 per ricoprire la carica biennale di lettore di francese all’École normale supérieure, già ben avviato alla carriera accademica grazie a Thomas Rudmose-Brown, suo professore di lingue romanze al Trinity College di Dublino. In Irlanda, però, ha già sentito nominare Joyce – forse nella cosmopolita scuola privata di Bianca Esposito –, ha frequentato il teatro di William Butler Yeats e di John Millington Synge, e la slapstick comedy di Buster Keaton e Charlie Chaplin, pietre angolari della sua opera.
Nell’introduzione al «Meridiano», Frasca descrive il rapporto con Joyce, di cui Beckett fu intimo amico e collaboratore, e del quale si rintracciano gli echi ormai svaporanti in Murphy, romanzo crogiolo della successiva maturazione del Premio Nobel (l’inizio del suo sistema a doppio originale e dell’equilinguismo, come del modello ‘iperraziocinante’), che giunge a compiutezza nella trilogia di Molloy, Malone muore e L’Innominabile. Nelle pagine che indagano la questione centrale della lingua e dell’insistita mancanza di stile di Beckett, Frasca sviluppa anche l’ipotesi del rifiuto dell’inglese ufficiale e accenna al possibile influsso delle idee di Milman Parry.
Fondamentale è la combinazione delle parole, chiavi dell’impalcatura del testo, come la questione della traduzione, quella dell’oralità e dell’autorialità. Beckett, è noto, trova nel francese una lingua in grado di piegarsi a tali esigenze e di stenografare il vissuto tramite un procedimento di dettatura: lo scrittore si fa «“dittare” letteralmente in diretta qualcosa da borbottare subito e trascrivere per voce altrui», scrive Frasca. Non è peregrina l’idea dell’approccio orale, perché a Beckett, come a Parry, interessano l’essenza e il residuo dell’uomo nel linguaggio, non il contenuto di una storia. Per questo egli sottrae sempre dal testo la rivelazione come qualcosa di inaccessibile (vedi Krapp). In fin dei conti, Beckett racconta una possibilità: quella di un popolo di personaggi che ha caratteristiche simili e un simile modo di indagare la realtà o il deposito del reale nel setaccio della percezione (la formula di Berkeley «Esse est percipi» come epigrafe in Film) per distillare un archetipo d’uomo o di un duo – maschile, ma anche maschio/femmina nelle varianti di Murphy e Celia del secondo romanzo, nelle coppie di ‘Primo amore’, di Giorni felici e di Finale di partita ad esempio –, quasi che egli dovesse mostrarne la validità nella metamorfosi delle forme tornando ciclicamente a dissezionarne i passaggi o l’esaurimento.
Tutto questo avviene nel depauperamento progressivo del linguaggio (il modello sottrattivo teatrale), o meglio nella tensione alla sua essenzialità, alla comunicazione pura, perché nella purezza del dettato emerga quanto è necessario anche solo per trovare una singola parola, quella giusta (Qual è la parola, ultima opera), o per sviluppare un ragionamento che perde le coordinate logico-razionali e diventa via via ipnotico (Fremiti fermi, dove il cammino della mente porta a sperdersi e a perdere le parole). La comunicazione vuota riporta a un grado zero che tende al silenzio. O al gesto, anche quello minimo del dondolamento (Dondola e altri scritti docent), cui può aver dato sostanza il lavoro di Marcel Jousse: Beckett prende parte con assiduità (così come Parry, probabilmente) alle sue lezioni nell’aula Turgot della Sorbona. Le tesi di Jousse dimostrano il legame fra modelli ritmici orali, processo respiratorio, gesti e simmetria bilaterale del corpo umano.
Primo fu il gesto, si potrebbe dire, il gesto all’alba del linguaggio. L’uomo imita i movimenti del mondo e li carica di pensiero. La sua capacità di dividere la realtà in maniera bilaterale dà poi fondo all’organizzazione «formulare» che sostanzia la tradizione delle civiltà. Il tutto poggiato su un ritmo che esclude lo scritto e attesta il primato del vivente nel suo farsi. O disfarsi.
È tutta tesa tra queste folgorazioni, la parabola artistica beckettiana. Lo sperimentalismo linguistico e i diversi media usati, che comprendono radio e televisione, ne sono la prova: è la matrice della modernità che arriva fino a noi, sino all’ultimo Premio Nobel, Jon Fosse.

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