Beckett inerte e forsennato
Carteggi Tra i «rantoli» del discorso epistolare, si profila l’immagine di un letterato che ha superato la sua antica aspirazione a essere un «cerchio perfetto»: «Lettere 1941-1956», Adelphi
Carteggi Tra i «rantoli» del discorso epistolare, si profila l’immagine di un letterato che ha superato la sua antica aspirazione a essere un «cerchio perfetto»: «Lettere 1941-1956», Adelphi
«Non faccio niente. Ogni tanto provo a cominciare, ma non approdo a nulla». Su queste parole avevamo lasciato Samuel Beckett, al termine del primo volume delle sue Lettere: 1929-1940 (Adelphi, 2017), fra attacchi di panico, crisi di impotenza ed esacerbate rivendicazioni di accidia. Lo ritroviamo in preda alle stesse insofferenze qualche anno dopo, mentre consuma una tranquilla e misera «similvita» ai «margini», all’inizio del secondo tomo delle Lettere 1941-1956 che esce in questi giorni presso Adelphi (traduzione di Leonardo Marcello Pignataro, a cura di Franca Cavagnoli, pp. CIV-517, € 55,00). Fin dai primi messaggi Beckett torna a ribadire all’amico MacGreevy he «le cose vanno malissimo, di un male che non porterà da nessuna parte»: e tuttavia la corrispondenza dello scrittore, negli anni che seguono, non si limita a replicare le «lagne» di un tempo, ma ci offre l’opportunità di assistere a una rivoluzione che si compie tanto al di fuori dell’io quanto all’interno del suo discorso epistolare.
L’ultimo dei debosciati
Da un capo all’altro di queste lettere, Beckett insiste nel presentarsi come «l’ultimo dei debosciati»: è sempre più provato, apatico e «instupidito», bravo solo «a immusonirsi» e a ricadere «nel silenzio». Anche se poi le dichiarazioni di inerzia letteraria si modulano sui toni di un nuovo registro, che invece di seppellire i destinatari sotto le dotte «geremiadi» di citazioni e «sanie verbali» della precedente stagione si orienta – come ha notato Dan Gunn – verso una direzione più «informativa».
Tranne che nelle rapsodiche elucubrazioni sull’arte inviate a Georges Duthuit, in cui Beckett si definisce «anima gemella» del pittore Bram van Velde, sono meno frequenti i casi in cui il mittente parla «a budella aperte», per poi doversi scusare di volgari incursioni nella propria «autobiografia». Più spesso, accanto alle lamentele sul disgusto e sulla «paura del fare», trovano posto annotazioni sulla natura formulate da un Beckett «eremita», che nell’universo «astratto» della campagna di Ussy-sur-Marne sembra scoprire una «tana» e una «buca» dove potersi sotterrare, al riparo dalle nevrosi della letteratura.
Sul versante creativo, nonostante gli incalzanti annunci di «paralisi», le lettere testimoniano per l’appunto le fatiche di un febbrile tour de force. Dopo aver abbandonato il suo «bizzarro» inglese a vantaggio del francese, «lingua dell’infinitesimale», nel giro di pochi anni Beckett riesce a completare una trilogia di romanzi che lo riduce «a malpartito» (Molloy, Malone muore, L’innominabile), per poi sottoporsi al «tormento» della forma breve nei Testi per nulla e dedicarsi, in parallelo, allo «spazio» del teatro, per lui più «definito» e «rilassante» rispetto alla «terribile prosa» delle narrazioni. Ed è in particolare nel 1953, con la prima rappresentazione di Aspettando Godot al Théâtre de Babylone di Parigi, che la situazione si ribalta una volta per tutte. Da qui in avanti, come ha avvertito James Knowlson, il romanziere esce dal suo «anonimato» per trasformarsi in un drammaturgo ricercato, discusso e costretto a fare i conti con le difficoltà di messa in scena dei suoi testi, ma soprattutto con la pubblicità e con le interviste, esecrabile «esercizio» dei giornalisti – dirà nel 1973 Nabokov – che non si accontentano di «dare la caccia al mandarino», ma vogliono anche «andarlo a trovare».
Di fronte a una simile minaccia, la comunicazione epistolare si prospetta come il più vantaggioso degli alleati per un drammaturgo che in realtà desidera soltanto starsene «con la testa fra le nuvole» a guardar «crescere l’erba». Le lettere mettono a sua disposizione una defilata cabina di regia: al suo interno, l’artista si comporta come un singolare demiurgo, che da una parte si infuria contro qualsiasi taglio non autorizzato alle proprie «creature» letterarie, ma dall’altra si rifiuta di reagire alle moine dei critici con l’accondiscendenza di «una scimmia ammaestrata» e si proclama incapace di «spiegare» a chicchessia il proprio lavoro. E non solo perché non si sente «all’altezza» del compito. «Di idee sul teatro non ne ho. Non ne capisco niente. Non ci vado», risponde Beckett a Michel Polac: dell’arcana identità di Godot o degli altri personaggi della pièce, non ne sa «più di chi la legge con attenzione», perché tutto quello che gli è riuscito di apprendere lo ha «mostrato» sulla scena.
Questo non esclude che poi dalla cabina di regia dell’epistolario finiscano per arrivare preziose indicazioni, da sottoporre in ogni caso al beneficio del dubbio. Quando non può essere presente alle prove in teatro – per «rompere le scatole» o per ritrovarsi a «gemere» sotto la poltrona – il drammaturgo utilizza la corrispondenza come un portavoce fermo e discreto, ma consapevole dell’influenza lesiva che le sue istruzioni rischiano di esercitare sugli interpreti. Veniamo così a scoprire che Aspettando Godot coincide con una colossale «clownerie», che nella rappresentazione del «grottesco» non prevede trovate sceniche, elementi «espressionistici» e tantomeno «simbolismi» di sorta. Tutto il dramma, contenuto nella scena finale del primo atto «con la luna e l’albero», si baserebbe sulla «confusione mentale e identitaria» dei protagonisti e sulla loro «parola» priva di «un senso», che si impegna a lottare contro il silenzio e a rimandare al suo mistero. Anche se poi lo stesso Beckett non si dimostra «per nulla convinto» che queste sue «opinioni» d’autore vadano prese troppo sul serio dal regista della produzione, né pretende che «l’autore» chiamato in causa, per parte sua, debba avere ragione «per forza».
Ma allora a cosa servono queste Lettere? A fare «tutto il possibile» per «proteggere» il lavoro senza imporsi più del dovuto – ci assicura Beckett – e allo stesso tempo a tenere il punto sulle ambigue «avventure» della scrittura, quasi per confonderci e riportarci al paradosso. Anche in questo volume della corrispondenza la parola letteraria viene di solito paragonata alla defecazione, all’emorragia o al «farfugliamento» di un «forsennato», che combatte per dire la realtà del «niente»: ogni sua sillaba costituisce uno «sforzo» condannato a «segare il cranio» o a ricadere nell’insoddisfazione di un fallimento annunciato in partenza.
Non più immobile
Eppure, proprio tra i «rantoli» del discorso epistolare, si profila anche l’immagine di un letterato non più immobile né bloccato nella sua «antica» voglia di diventare un «cerchio perfetto» e «di corto raggio». «Vedo con un po’ di chiarezza qual è il senso del mio scrivere», annuncia Beckett a MacGreevy fin dal 1948, con la «strana» e forse illusoria sensazione di aver scovato «una prospettiva» dopo anni di «espressione alla cieca». E per quanto il drammaturgo ammetta poi con Donald McWhinnie nel 1956 di essere «lentissimo» e incline a prendere «strade sbagliate», una via stavolta c’è, e lo scrittore si impegna a percorrerla fino in fondo: anche solo per continuare a ripetere ai propri corrispondenti, «rannicchiato» nella tana, che si sente «finito», pronto «per la cassa» e ormai arrivato «al capolinea».
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