Beatles, una storia italiana
Fenomeni/Le ragioni del difficile rapporto dei nostri musicisti con il pop dei Fab Four. Tra cover e tributi 60 anni fa, il mondo comincia a rieseguire i loro brani. Non da noi, forse colpa dell’inglese o perché considerati «troppo commerciali»
Fenomeni/Le ragioni del difficile rapporto dei nostri musicisti con il pop dei Fab Four. Tra cover e tributi 60 anni fa, il mondo comincia a rieseguire i loro brani. Non da noi, forse colpa dell’inglese o perché considerati «troppo commerciali»
Caso unico al mondo, i Beatles, fin dal momento del loro successo internazionale, diventano oggetto di attenzioni da parte sia dei musicisti sia dei discografici, anche dal punto di vista della riproducibilità artistico-mediatica del loro repertorio: senza entrare nel merito delle influenze stilistiche sulle altre forme del rock e della pop music, il songbook firmato Lennon-McCartney (arricchito dalle sortite di Harrison) è al centro di numerosissime incessanti cover in ogni angolo del pianeta tra il 1963 e il 1970, ovvero nel periodo di attività del gruppo: delle 183 canzoni ufficialmente registrate, quasi tutte vengono ricantate in una cinquantina di Paesi dove, secondo la prassi dell’epoca, i testi in inglese risultano tradotti e adattati negli idiomi locali.
MISSIONE AMBURGO
Anche i Beatles – alla stregua di moltissimi loro colleghi che, in tal senso, lavorano persino più alacremente su diverse lingue – cantano due pezzi in tedesco Sie liebt dich (She Loves You) e Komm, gib mir deine Hand (I Want to Hold Your Hand), quasi a omaggiare la Germania dei localacci di Amburgo, dove, due-tre anni prima, Paul, John, George con Stuart Sutcliffe e Pete Best (poi sostituito da Ringo Starr al ritorno) sgobbano per pochi marchi, inventandosi via via come ‘Scarafaggi’: al rock’n’roll di matrice bianca (Elvis Presley) e nera (Chuck Berry) e a una scelta quasi enciclopedica di motivetti popolari (classici e modaioli) aggiungeranno quel tocco british che li contraddistinguerà negli anni a venire, per un fitto decennio di esperimenti dentro (e fuori) gli stilemi della popular music.
Forse appagati dall’exploit planetario quasi immediato, a differenza di colleghi blasonati – Nat King Cole, Amália Rodrigues o Caterina Valente, ciascuno a proprio agio in almeno cinque-sei lingue – i Fab Four non padroneggiano altri idiomi al di fuori dell’inglese (con pronuncia marcata dallo scouse di Liverpool), mentre è risaputo che persino i Rolling Stones di Con le mie lacrime (As Tears Go By) e il David Bowie di Ragazzo solo, ragazza sola (Space Oddity) cantano in italiano, così come le decine di gruppi e solisti stranieri, invitati al Festival di Sanremo tra il 1964 e il 1971, più o meno coincidente con l’era beatlesiana. Il regolamento dell’epoca vuole che la stessa canzone venga interpretata da due diversi artisti (di cui uno straniero): e così faranno via via gli Yardbirds, gli Hollies, Los Bravos, Ben E. King, Paul Anka, Dusty Springfield, José Feliciano, Stevie Wonder, Ray Conniff, persino Louis Armstrong, per citare i migliori. L’unica presenza beatlesiana nella Città dei Fiori, per la kermesse nazionalpopolare, è un Paul McCartney in incognito, che accompagna la bionda giovanissima vocalist Mary Hopkin, in gara con il brano Lontano dagli occhi (in coppia con Sergio Endrigo); l’inglesina, da poco sotto contratto con la Apple, avrà fortuna effimera tanto nel presunto flirt con l’unico Beatle ancora scapolo quanto nella musica con la sola Those Were the Days (Quelli erano giorni in italiano) nelle top ten europee.
IN CRESCITA
Detto questo, è impressionante il numero di cover in quasi tutte le lingue indoeuropee (e persino nei dialetti regionali) che timidi esordienti o navigati professionisti, figure marginali o stelle arcinote, riescono a produrre nei soli sette anni di attività del Quartetto di Liverpool: un numero destinato a crescere e ancora in costante aumento, benché ora l’interesse vada localizzato, per una seria questione metodologica, proprio sui rifacimenti effettuati in Italia durante l’era beatlesiana, in attesa che gli studiosi, i musicologi, i linguisti, in tandem con provetti collezionisti possano concepire e realizzare un atlante con tutte le cover ufficialmente incise e poi edite in Europa, Asia, Africa, Oceania e nelle Americhe. E, al proposito, è doveroso segnalare un nuovo eccellente libro, concentrato, in esclusiva, su quanto accaduto lungo la Penisola durante i Sixties: I Beatles made in Italy. Tutte le cover italiane dei Four Four (Baldini+Castoldi) di Enzo Gentile e Italo Gnocchi è un testo illustrato che raccoglie e commenta, uno a uno, ben 132 pezzi allora usciti perlopiù su dischi a 45 e 33 giri: l’elenco, nel testo, procede in ordine cronologico, presentando, oltre alle copertine originali (spesso kitsch, erotiche, goffe, risibili), appunto le note dei curatori, i quali offrono anzitutto le informazioni necessarie a inquadrare storicamente voci e nomi, volti e carriere di personaggi spesso dalla vita musicale breve, effimera, traballante, fino alla totale obsolescenza (Franco Ferri, Danny Lorin, Cico Mauro per citare i primissimi a «beatlesizzarsi»). Infatti ciò che più colpisce tra il centinaio di solisti e gruppi che propongono quasi sempre uno-due hit del canzoniere di John-Paul-George-Ringo è la mancanza di molti «giovani eroi» di un decennio che vede pure cambiamenti radicali in quella che allora viene definita «musica leggera» dal giornalismo cartaceo e radiotelevisivo.
DA EVITARE
A «evitare» i Beatles, infatti, figurano anzitutto i tre precursori della svolta canzonettistica dal belcantismo a una contemporaneità via via attraversata da innovazioni straniere: Fred Buscaglione è morto, Renato Carosone ritirato dalle scene, Domenico Modugno intento a seguire una linea al contempo autoctona e moderna, intrinsecamente legata al proprio personaggio. Subito dopo vengono le «scuole» – genovese, milanese, torinese – del tutto estranee alle culture angloamericane (benché alcuni futuri protagonisti, come I Due Corsari, esordiscano copiando il r’n’r yankee), impegnate invece a forgiare ciò che Vincenzo Micocci in quegli anni, per primo assieme a Maria Monti ed Ennio Melis, definisce «canzone d’autore» e «cantautori». I nomi sono noti: Paoli, Tenco, Lauzi, Bindi De André dalla Liguria; Jannacci, Gaber, Fo, Della Mea, I Gufi dalla Lombardia, il gruppo Cantacronache (Straniero, Amodei, Liberovici, Margot) dal Piemonte, tutti con un orecchio di riguardo alla chanson française, al Kabarett tedesco, alla protest song, ai canti anarchici, socialisti, partigiani.
Ma niente Beatles o altri «capelloni», ritenuti, almeno fino alla svolta psichedelica, un prodotto commerciale, borghese, consumista, nell’ottica di una politica culturale ancora vicina all’ortodossia del Pci, ma che sta per essere scavalcata a sinistra dal movimento giovanile, poi strutturatosi attorno a collettivi e riviste come il manifesto, Lotta Continua, Avanguardia Operaia. Il fatto è che in Italia, per queste e altre ragioni, viene a mancare, se non a livelli in fondo elitari, il fenomeno della prima beatlesmania, ingrediente ri riferimento, invece, per gli adolescenti dei Paesi anglosassoni, con l’unica grossa eccezione del formarsi, sull’intero territorio italiano, delle rock band spontanee, allora denominate «complessi» o «complessini» musicali, beat o addirittura bitt nella trascrizione fonetica del vocabolo inglese, in una nazione, dove lo studio della prima lingua straniera è ristretta ai tre anni della scuola media unica, varata, proprio nell’anno dei Fab Four, dal primo centrosinistra. Da studiare c’è soprattutto francese e in parte tedesco, ancora oggi gli altri due idiomi ufficiali della Repubblica Italiana, assieme al ladino, in alcune regioni autonome: da qui, proprio in quel decennio, la misconoscenza del vocabolario britannico e Usa, spesso scambiato per slang incomprensibile, soprattutto a causa dei film della commedia all’italiana o dei tv show del sabato sera; il tutto porta inevitabilmente alla scelta quasi obbligata dei musicisti e dei discografici, da Milano a Roma, di far cantare, nella parlata di Dante, il rock pop dei Beatles e degli altri seguaci, riuniti dai critici attorno all’espressione British Invasion.
Sebbene all’epoca quasi tutti i ragazzi italiani strimpellino o intonino Twist and Shout, Michelle, Satisfaction o The House of the Rising Sun nel linguaggio di Shakespeare, sta di fatto che il beat originale viene conosciuto discograficamente attraverso traduzioni fantasiose spesso maldestre, traballanti, forzate, con un uso spropositato di vocaboli tronchi o monosillabici – per la scarsità di parole con l’ultima vocale come tonica – a causa della differente sillabazione fra le due grammatiche (inglese e italiana). Paradossalmente i complessi famosi, Nomadi, Giganti, Equipe 84, Pooh, Quelli, Corvi – persino gli inglesi in Italia come Rokes, Renegades, Casuals, Primitives, Motowns – risultano privi di cover dei Beatles, che sono esclusivo appannaggio di sole tre band di rilievo. E lo stesso vale per la pletora di star e starlet del firmamento vocale sia femminile sia maschile: no ai Beatles per Rita Pavone, Milva, Caterina Caselli, Gigliola Cinquetti, Adriano Celentano, Fred Bongusto, Bobby Solo, Little Tony, per citare reginette e «reucci» più in voga, sì solo per Mina, Gianni Morandi, Dino, Ricky Gianco, Don Backy, Peppino Di Capri; difficile oggi capire i motivi delle scelte in un quadro dove le cover tricolore di tanti artisti diventano addirittura più famose degli originali, se si pensa che di brani ancor oggi molto ascoltati – da Se perdo anche te a Scende la pioggia, da Ragazzo triste a Qui e là – si signora la provenienza angloamericana.
STILE TRICOLORE
Ancora non esiste un elenco di tutte le cover eseguite nell’età dell’oro del beat italiano e quindi non si sa con esattezza quali siano le dinamiche prevalenti: fatto sta che tra i complessi, ossia la tipologia sonora meglio accostabile al rock angloamericano, solo tre big, Ribelli, Camaleonti, Nuovi Angeli incidono i brani dei Beatles. I primi sono I Camaleonti, quintetto che nel 1966 riprende la delicata Norvegian Wood trasformandola in Se ritornerai.
Seguono nel ’68, quasi in simultanea con l’originale, I Ribelli con Obladì obladà (Ob-la-di Ob-la-da) passata alla storia per un incipit davvero surreale: «Gianni fa le pizze e tosti al super bar, Lilli canta al night del Ragno Blu», ripetendosi un anno e due dopo rispettivamente con Goodbye e Oh! Darling uguali nel titolo. Anche I Nuovi Angeli, dopo Il dubbio (You Never Give Me Your Money/Carry that Weight) riprendono Obladì obladà, che solo in quell’anno può vantare altri dieci versioni di gruppi e solisti. Fuoriusciti da rock band celebri, nel 1970, Maurizio Vandelli canta Let It Be e Franco dei New Dada Una come te (Something) dimostrano come in Italia primeggi il singolo interprete, magari forte del fatto che, all’estero, accostatisi al côté melodico, siano soprattutto i grandi vocalist a riprendere il canzoniere beatlesiano, giungendo persino dal jazz (Frank Sinatra e Ella Fitzgerald), dal soul (Ray Charles e Aretha Franklin) e dal rock’n’roll (lo stesso Elvis in stile Las Vegas).
Chi ad esempio, in Italia, tra le donne, inserisce almeno un pezzo di Lennon-McCartney, nei primi quattro album, è Patty Pravo: tra il 1968 e il 1970 sussurra sensualmente Yesterday, With a Little Help from My Friends, l’harrisoniana Something, La tua voce (And I Love Her) e The Long Long and Winding Road. Ma ci sono pure Dalida, pochi mesi dopo il suicidio del compagno Luigi Tenco a proporre Amo (Girl) e la quasi esordiente Nada con Yellow Submarine.
Tuttavia l’operazione maggiormente artistica viene condotta da Ornella Vanoni che, ancora nel fatidico Sessantotto, con il grande album Ai miei amici cantautori rende omaggio anche a un pezzo ormai «classico» quale Yesterday.
Mina, invece quasi trent’anni prima del cd Mina canta i Beatles (1993), oltre le medley dal vivo a Studio Uno, ha un solo 45 giri «beatlesiano» Sai che mi vuoi (It’s For You) che John e Paul lasciano per la british singer Cilla Black, la quale, a sua volta, canterà in italiano M’innamoro (Step Inside Love) che i due Scarafaggi scrivono apposta per lei. Tra l’altro non è l’unica straniera a proporre i Fab Four nel Belpaese: dimenticati in fretta Dick Rivers (un teen idol francese), The Ingoes (poi divenuti gli psichedelici di culto Blossom Toes), Les Surfs (i fratelli dal Madagascar con apparizioni sanremesi), Les Compagnons de la Chanson (già coristi con Edith Piaf e dediti a inni politici), Vic Dana (statunitense), Brian (angloaustraliano), Chriss And The Stroke (canadesi), Mike Liddell & Gli Atomi, Tihm (italoaraba), Patrick Samson (libanese) addirittura Day Costello (al secolo RossMacManus, jazzman e soprattutto padre di Elvis Costello) si cimentano in questo repertorio. È invece italianissimo il trio Los Marcellos Ferial che alterna brani latinoamericani alla versione messicaneggiante di Yesterday (Ieri). Va però ricordato che i primissimi a coverizzare sono tre voci maschili – Fausto Leali, Dino, Ricky Gianco – destinati solo in seguito alle hit parade: per il bresciano, soprannominato «il negro bianco», le vendite del suo Please Please Me non sono certo paragonabili alla veemente A chi (Hurt di Timi Yuro) o alla revivalistica Angeli negri (Angelitos negros di Pedro Infante) e nemmeno al r’n’b Deborah scritta da Giorgio Conte (fratello di Paolo) e presentata a Sanremo in coppia con il soulman Wilson Pickett.
Fra gli altri paradossi, infine, sui Beatles, i due rivali alla Rai di tante Canzonissime – pronte a schierare la «modernità» giovane contro la «tradizione» adulta – ossia Gianni Morandi versus Claudio Villa – che nel 1970 si avvicinano per il fatto che nei loro rispettivi long playing Gianni 7 e International hits volume 2 includono due ballate come la dolce Here, there and Everywhere e la citatissima Yesterday con esiti a dir poco discordanti l’uno dall’altro. Infine da un’epoca in cui l’idea di album-tributo è ancora lontana giunge Beatlesmania (1965) dei Meteors e Righetti Al Charlie Max canta i Beatles in italiano (1966) a nome Augusto Righetti e il suo Charly’s Team, a dimostrazione che, in almeno due casi, la «beatlesmania», forse magari convertibile in «beatlesfilia» è presente anche in tempi non sospetti.
SWINGIN’
Nel 1970 i Beatles risultano ufficialmente separati e di conseguenza le cover ovunque diminuiscono per circa vent’anni, fin quando, anche il jazz – sull’onda di progetti esterofili riguardanti omaggi e tributi alle musiche più disparate, purché rispettino le prerogative via via sviluppate da Louis Armstrong, Billie Holiday, Charlie Parker o John Coltrane – non prende in mano gli spartiti di Lennon-McCartney (e Harrison) per rileggere un «Canzoniere» ormai valutato «classico del Novecento» alla pari di George Gershwin, Duke Ellington, Cole Porter, Thelonious Monk.
Quasi subito, anche nel jazz italiano, le riletture avvengono con spirito d’avventura, grosso modo dal 1995 a oggi, attraverso stilemi risalenti quasi sempre a epoche jazzistiche precedenti la British Invasion: l’Abbey Road Dixie Band di Andrea Lupi (banjo) con Get Back to New Orleans interpreta in quintetto All Together Now e altri 14 pezzi alla maniera delle brass band nell’antico hot dei ruggenti Twenties. La New Project Jazz Orchestra di Renzo Vigagni nei due CD Across The Beatles Universe e Here Comes offre invece un afflato delicatamente mainstream, che è pure l’atteggiamento di altre due big band, memori tanto della Swing Era quanto nel mondo odierno: JW Association Orchestra di Marco Gotti in The Beatles Go Jazz e il Jazz Studio Quartet (allargato a un insieme ritmosinfonico) con Beatles?! Idea si divertono a spaziare fra diversi stili dal cool all’hard bop.
C’è chi invece si rifà al soul jazz come il trio Scenario nei due Jazz The Beatles e Let It Beatles dove Simone Santini (oboe, sop.no, alto), Alberto Marsico (chit.), Enzo Zirilli (batt., perc.) riconducono il soul inglese a una verve citazionista afroamericana. Ottimo anche il lavoro compiuto, negli anni, con altri piccoli combo dal Barbara Casini Quartet in Stasera Beatles, dove la vocalist toscana (poi celebre per la bossa nova) in compagnia di un giovanissimo Stefano Bollani gorgheggia sui brani del periodo Help!, Revolver e Rubber Soul. Il compianto Stefano Malaguti assieme a Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra con Something rivolge la formula del guitar jazz trio verso un’improvvisazione quasi matematica, mentre Giuseppe Milici e Mauro Schiavone in Beatles Jazz Tribute rispettivamente all’armonica e al pianoforte confermano il mood cameristico, coesistente accanto a un rock-pop più vivace, duro o spensierato.
C’è infine chi trasforma i Beatles non solo in chiave jazz ma anche in una miscela pluriespressiva come l’ottetto B For Bang in Rewires The Beatles, fra l’altro con Meg (voce) e Katia Labèque (piano), oppure l’inglese Sarah Jane Morris con i napoletani Solis String Quartet nel nuovissimo All You Need Is Love dall’aura neoclassica.
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