Beardsley, la rapidità di un fiore
A Parigi, Musés d'Orsay, "Aubrey Beardsley (1872-1898)", a cura di Caroline Corbeau-Parsons e Alice Insley Il graffio filiforme, barocco o preraffaellita o giapponese, di Aubrey Beardsley. La prima mostra europea dopo quella al V&A del 1966
A Parigi, Musés d'Orsay, "Aubrey Beardsley (1872-1898)", a cura di Caroline Corbeau-Parsons e Alice Insley Il graffio filiforme, barocco o preraffaellita o giapponese, di Aubrey Beardsley. La prima mostra europea dopo quella al V&A del 1966
«La sua musa ha conosciuto momenti di terribile ilarità; dietro le sue grottesche si nascondeva una curiosa filosofia… Superbamente prematuro, com’era stato lo sbocciare del suo genio, era ben lungi dall’essere alla fine del suo cammino. Nella caverna della sua anima sonnecchiavano sempre grandi possibilità; c’è qualcosa di macabro e tragico nel fatto che l’uomo sia morto con la rapidità di un fiore». Così scrive Oscar Wilde non appena apprende della morte a soli venticinque anni dell’amico Aubrey Beardsley. Accade il 16 marzo del 1898 a Menton. Una morte in qualche modo annunciata sin da bambino, da quando si scopre che è affetto da tubercolosi, all’epoca una malattia incurabile.
Una tale diagnosi equivale per Beardsley a convivere con l’idea di una fine imminente, che lo accompagna ovunque aderendo tragicamente al suo sottilissimo corpo. Nel segno di una piena décadence, tra gli ambienti simbolisti che frequenta, si attribuiscono all’incombere della morte il suo temperamento febbrile, il talento precoce, l’ossessione per l’erotismo e l’ansia di successo. Ma è forse il poeta Arthur Symons, con cui collabora negli anni della rivista «The Savoy», a vedere un aspetto probabilmente più essenziale della irrequietezza di Beardsley quando scrive che aveva «la velocità fatale di coloro che devono morire giovani; aveva quella sconvolgente completezza e ampiezza di conoscenza, quella capacità di assorbire una vita in un’ora che noti nelle persone che si affrettano a finire il loro lavoro sapendo che potrebbero non vedere la fine del giorno».
Va ricordato che la sua fulminante carriera, con più di mille disegni in soli sei anni, si esprime di pari passo con le nuove tecniche di riproduzione d’immagine. L’ultima decade del diciannovesimo secolo, specialmente nel settore della stampa, è un tempo di grandi sperimentazioni. Fin da subito Beardsley comprende le possibilità offerte dal progresso tecnologico. Non è facile replicare con la tecnica tradizionale il suo graffio filiforme, che è sottilissimo elegante e nervoso al contempo. La sua calligrafia essenziale e preziosa trova un giusto medium riproduttivo nel metodo che proprio allora viene perfezionandosi: quello appunto del cliché su lastra di zinco, realizzato fotograficamente a partire dal disegno originale. Questo metodo permette anche di bilanciare al meglio i contrasti di bianco e nero che hanno reso celebri le sue illustrazioni tra i circoli artistici e sulla stampa popolare.
Ma al di là di ciò, la grande forza di Beardsley risiede nell’avere una tale consapevolezza di sé da poter passare con sapienza e apparente disinvoltura da uno stile a un altro senza minimamente scalfire la propria integrità. La sua opera è sempre riconoscibile. Come rileva lo storico d’arte tedesco Julius Meier-Graefe, che incontra l’opera dell’artista inglese alla galleria l’Art Nouveau di Samuel Bing nel 1895, egli «può in un giorno essere barocco, preraffaelita o giapponese» e in fondo restare sempre Beardsley.
Di certo nell’affermare questa forma di eclettismo non si deve dimenticare che l’arte di Beardsley è eminentemente l’illustrazione, e che per quanto trasgressiva possa essere deve necessariamente confrontarsi con i testi letterari, e quindi con autori, stili, mondi ed epoche differenti. Diciamo allora che Beardsley si alimenta con profitto dell’antichità greca (studiando le immagini dei vasi a figure rosse e nere presenti al British Museum); studia il Rinascimento di Botticelli, Mantegna e Dürer (di questi ultimi incamerando molte soluzioni formali soprattutto dalle incisioni); prende nota davanti ai disegni della metà del Settecento. Ma in fondo a influenzarlo maggiormente sono le stampe giapponesi, che lui elabora nel proprio linguaggio con assoluto profitto, fondando la struttura dell’immagine sulla linea, giocando con l’asimmetria e il decentramento, scorciando le prospettive se non azzerandole perfino, studiando i vuoti e gli imprevedibili effetti sui pieni.
Il suo stile proteiforme gli offre la possibilità di creare un mondo tutto proprio, «abbastanza folle e un po’ indecente», come scrive all’ex compagno di scuola George Frederick Scotson-Clark. Ed è ancora con questi, in una missiva del 1893, che si compiace della propria versatilità nel padroneggiare «sette stili differenti, e tutti con un certo successo». Beardsley è allora all’inizio della sua carriera di illustratore. È già proiettato verso altri lavori più originali quando consegna circa quattrocento tavole per l’edizione di un classico cavalleresco del quindicesimo secolo, Le Morte Darthur di Sir Thomas Malory, che gli permette di abbandonare l’aborrito lavoro di impiegato. Benché questa prima prova d’artista risenta, oltre che di un certo gusto wagneriano, dell’influsso preraffaellita del suo mentore Edward Burne-Jones, e dell’ornato floreale à la William Morris (che vedendo l’opera non manca di irritarsi), gli vale un articolo sulla rivista «The Studio», che lo consacra tra gli illustratori più interessanti del panorama contemporaneo.
In questo articolo Joseph Pennell mostra, tra gli altri lavori, anche una caricatura realizzata come reazione alla prima edizione redatta in francese della Salomé di Oscar Wilde. Ed è questa caricatura, J’ai baisé ta bouche Iokanaan, che invoglia l’editore di Wilde a realizzare delle illustrazioni per la prima edizione inglese della pièce. Qui scandalo e successo incontrano il segno corrosivo ed elegante di Beardsley. L’autore dei disegni si fa interprete audace. Non segue la convenzione di adeguarsi al dettato del testo. Anzi, le immagini sembrano entrare in un vero e proprio antagonismo con l’opera. Wilde vi appare spesso in caricatura. Abbondano dettagli indecenti. Lì dove si può si emendano le nudità esplicite, ma l’erotismo si annida ovunque. Alcune immagini sono giudicate belle ma prive di attinenza. Wilde stesso vi nota lo spirito irriverente del giovane. E nonostante tutto, il libro raggiunge l’obiettivo: crea scalpore.
La mostra parigina in corso fino al 10 gennaio al Musée d’Orsay, Aubrey Beardsley (1872-1898), con una selezione di un centinaio di disegni originali, alcuni esemplari di prime edizioni di libri illustrati, e una selezione di poster, è un grande atto di riavvicinamento all’opera di un artista che in pochissimo tempo ha segnato un’epoca (in Europa la sola grande retrospettiva precedente è stata quella al Victoria & Albert Museum di Londra nel 1966).
Una mostra che riporta in primo piano anche la francofilia dell’artista. Beardsley ama la cultura francese, in particolare la letteratura, che nutre la sua identità di giovane dandy e lo porta a frequentare, a Dieppe, la cerchia di artisti franco-britannici che gli rende notorietà a Parigi, Bruxelles e poi in Germania. Ma oltre al fertile orizzonte culturale, la Francia rappresenta all’epoca un vero e proprio rifugio per artisti in odore di scomunica in patria. È stato in seguito all’imprigionamento di Wilde per omosessualità, all’inizio del 1895, che Beardsley è costretto a lasciare Londra e l’Inghilterra per ostilità anche nei suoi confronti. Si reca a Dieppe, comincia a collaborare con l’editore Leonard Smithers. Realizza illustrazioni di libri erotici d’autore che all’epoca avevano una circolazione clandestina. Beardsley diviene sempre più fedele al testo letterario. Ma sul letto di morte l’ultima sua volontà è di bruciare tutte quelle opere. Smithers per fortuna non mantiene la promessa.
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