La Banca centrale europea (Bce) ha deciso ieri il mantenimento dei tassi d’interesse per combattere l’inflazione che resta elevata nell’Eurozona. Il tasso di deposito resterà al livello record del 4%. Dopo un aumento senza precedenti dal 2022, i tempi non sono ancora maturi per un taglio. Il mantenimento dello status quo, ha detto la presidente della Bce Christine Lagarde, serve a combattere l’aumento dei prezzi in una situazione economica incerta anche a causa delle guerre in Medio Oriente, a Gaza e nel Mar Rosso.

La pressione dei mercati su Francoforte ad abbassare i tassi si è fatta nelle ultime settimane sempre più forte. Si sta infatti scommettendo su una serie di tagli ai tassi di interesse nel corso del 2024 – variabili da sei a tre – in modo tale da fare crescere i rendimenti dei titoli e fare guadagnare le società, gli intermediari e i risparmiatori con le rendite investite. E infatti le borse in queste settimane stanno correndo. Già a Davos la settimana scorsa, e anche ieri, Lagarde ha rinviato all’estate un primo taglio ai tassi di interesse, per il momento. E si è limitata a dire che la navigazione della Bce procederà a vista, cioè aspetterà i dati di volta in volta. Nel frattempo l’inflazione sta calando, perché i prezzi dell’energia stanno diminuendo. Questa, per i banchieri centrali, è la prova che la loro politica sta funzionando.

Quella in corso è una singolare battaglia basata sulla psicologia e il «sentiment» – quel principio impalbabile che tuttavia governa l’intera economia finanziarizzata. Le banche centrali svolgono un ruolo di primo piano. È possibile spiegare la situazione in diversi modi: il primo rinvia alla storia delle crisi inflattive tra gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta dello scorso secolo. Allora, infatti, la Federal Reserve americana sbagliò le previsioni e anticipò un taglio dei tassi. Ciò comportò un nuovo balzo dell’inflazione che indusse la banca centrale a ri-aumentare i tassi. L’andamento a «W» di quella crisi diede il colpo di grazia ai lavoratori e provocò una recessione. È l’eredità politica di quella rigida politica monetarista. Oggi, con un’inflazione di tutt’altro tipo, cioè dovuta ai profitti e non alla temuta e inesistente «spirale prezzi-salari», la Bce cerca almeno di non ripetere quanto accaduto 40 anni fa. Ma sta producendo lo stesso effetto politico nella società.

La redazione consiglia:
Marazzi: «Le banche centrali hanno paura del contagio delle lotte operaie e sociali»

Una seconda lettura possibile della prudenza esibita in questi mesi da Lagarde è stata data, tra gli altri, dall’economista francese Thomas Piketty che ha evidenziato l’effetto reale delle politiche anti-inflattive adottate in maniera coordinata dal 2022 dalle banche centrale per domare l’inflazione alle stelle. Per capire tale posizione bisogna in primo luogo definire l’inflazione come un conflitto redistributivo dei redditi (cioè politico, una lotta di classe) e non puramente monetario come in sostanza fanno i governanti. Le banche centrali stanno contribuendo ad accrescere la concentrazioni delle ricchezze. I più ricchi beneficiano dell’aumento dei profitti in borsa e delle rendite immobiliari. I tassi di interesse penalizzano i più precari e tutti coloro che hanno bisogno di un prestito per finanziare un mutuo, ad esempio. Le condizioni premiano le banche che godono di un’eccellente salute, a cominciare da quelle italiane.

Lagarde ha aggiunto ieri di aspettare i dati di aprile sui salari. Dipenderà da questi il taglio dei tassi tanto auspicato. La presidente ieri ha confermato che la spirale prezzi-salari non c’è stata (a Francoforte lo sanno da tempo). E gli aumenti degli stipendi sono stati assorbiti dai maggiori profitti che le aziende hanno realizzato in questi anni di prezzi alle stelle. I vincitori sono stati i profitti, anche in questa crisi. Dopo quella del Covid.