Una banlieue dell’anima, stipata di solitudine e di individualismo. Una distopia tragica che coltiva in modo consapevole l’ambiguità di ruoli, interpreti, motivazioni. Una sola luce che si accende a intermittenza riflettendo le parti cromate di una batteria che suona ineluttabilmente jazz. I ragni d’oleandro (Transeuropa, pp. 208, euro 16,90) di Mario Bramè – che sarà presentato oggi alle 18 a Milano nell’ambito di Book Pride – muove dal desiderio di rielaborare in forma narrativa i fatti del Bataclan, la strage jihadista compiuta il 13 novembre del 2015 a Parigi, sfuggendo però a ogni facile compromesso con il racconto del reale. Se lo spunto è quella drammatica vicenda, l’esito non potrebbe essere più spiazzante.
Anche il Bataclan del romanzo è, al pari del celebre locale parigino, un luogo a suo modo mitico, ma dotato di un’energia e una storia tutta sua. Come testimonia «quella specie di sacrario» che copre ogni centimetro del muro alle spalle del bancone.

CI SONO «la maglia di Charly Mottet, buon ciclista del recente passato, accanto a una bandiera del Canada; un binocolo della Germania dell’Est faceva il paio con una scheda elettorale degli anni settanta, a poca distanza dal fotomontaggio di Giovanni XXIII con John Coltrane». E, soprattutto, «un gigantesco autografo di Jane Birkin». Questo, senza dimenticare il cappotto dell’Armata rossa che il proprietario indossava in alcune particolari serate.

PERCHÉ IL LOCALE ospita ogni anno «il Contest», qualcosa di più di un concorso per musicisti non professionisti, una sorta di rito collettivo in cui camionisti, impiegati, commessi di ferramenta danno corpo a ciò che in realtà sentono di essere prima di tutto, anche se tengono ben celato sotto gli abiti delle loro esistenze quotidiane. «Si suonava. Perché eravamo musicisti, perché quella notte bisognava farlo. Perché era un grande rito pagano e sottrarsi al sacrificio sarebbe stato peggio che sacrificarsi».
Il luogo non è perciò scelto a caso. È qui che il protagonista, che ha scoperto il jazz attraverso l’Horace Silver di Song for my Father, scovato in un negozietto di dischi proprio davanti l’ospedale in cui il padre si stava sottoponendo a un delicato intervento al cuore, ha scelto di portare a termine il suo folle progetto di annichilimento collettivo. C’è un libro a ispirarlo, ma non ha niente a che fare con la religione in senso stretto. O meglio risente dell’interpretazione che ne ha dato Schopenhauer nei suoi Aforismi sulla saggezza della vita, un testo su cui si è imbattuto per caso su una bancherella. Una rivelazione.

«COMINCIAI A LEGGERE – ci informa il protagonista e narratore -, e rimasi sorpreso da come quelle parole descrivessero perfettamente la mia condizione (…) che squarcio aperto di colpo su quello schifo di esistenza!». Trarre le estreme conseguenze sarebbe stato il passo successivo. «La cosa più sensata sarebbe l’autoestinzione del genere umano. Questo è il punto». Perciò, aveva trovato dei «soldati» pronti a passare all’azione: anch’essi disperati, con dentro la sensazione di essere stati sconfitti dalla vita.

NEL FRATTEMPO, il ritmo fatto di pieni e di vuoti della musica, il jazz in una parola, e l’istinto di morte, di autodistruzione, di assenza, perfino da sé, corrono paralleli, antagonisti ma in un certo modo complici. Fino al punto di lasciar immaginare che nelle pause del suono sincopato, il vuoto della mente possa avere il sopravvento. Del resto, due vecchi kalashnikov attendono nella cantina del locale in mezzo agli strumenti, pronti ad essere nascosti dentro una custodia da contrabbasso: le loro parti metalliche possono essere confuse con quelle di una batteria. Chi immagina la strage auspica una sanguinosa e crudele presa di coscienza, «non vorrei ucciderli tutti. Basterebbe che mi dicessero che hanno capito, che hanno visto». Un incendio che la musica, come interroga a fare il romanzo potrà alimentare o dissolvere: «non era raro che i diavoli blu del jazz, rafforzandosi per tutta la notte, invece di sparire riaffiorassero dall’inconscio e dal passato con forza irresistibile».

ESORDIO NARRATIVO di Mario Bramè, studioso della filosofia della scienza e componente della band psichedelica Mary Newsletter, I ragni d’oleandro segna anche il debutto di Wildworld, la nuova collana di Transeuropa, fortemente voluta da Giulio Milani, che si ispira idealmente al modello delle serie tv, con diversi autori che si susseguono a partire da una tematica comune che, in questo caso, è la messinscena della realtà.