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Basta la parola. Venti modi per dire jazz

Basta la parola. Venti modi per dire jazzGiancarlo Cazzaniga nel suo studio di corso Garibaldi a Milano negli anni '50

Il 30 aprile l’Unesco celebra in tutto il mondo il genere nato negli Usa L’«International Jazz Day» offre anche lo spunto per indagare mondi e storie legate a una parola dall’etimo ancora incerto. Viaggio al cuore di un suono che continua a influenzare stili e professioni, dalla pittura alla poesia dai fumetti, al cinema fino alla narrativa

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 12 aprile 2014

Dal 2012 esiste l’International Jazz Day, perché l’Unesco ogni anno, il 30 aprile, vuole festeggiare la Giornata internazione del jazz, in quanto cultura, musica «patrimonio dell’umanità». Dunque, jazz: si pronuncia gezz o giass, e magari c’è chi pensa subito a un profumo o a un automobile, che portano il nome di un linguaggio sonoro cosmopolita, democratico e intergenerazionale.

Centinaia saranno le iniziative in tutto il mondo per ricordare e animare il sound afroamericano per eccellenza, dall’etimo ancor oggi misterioso e al contempo soggetto a diverse glosse ed eterogenee interpretazioni. Per alcuni jazz – prima scritto anche jass, jas, jasz, jaz – deriva dall’incerto «jasm» che, nelle zone creole, in particolare a New Orleans, è sinonimo di vitalità o in slang di prestazione sessuale; per altri è una parola tratta dal francese chasse-beau, che è un passo di danza dell’epoca (il cake walk). Ma a fine Ottocento si trovano ulteriori risposte: jazz-bells, soprannome delle prostitute di New Orleans in ricordo della Jesabel biblica; il verbo jaser, che significa chiacchierare; il soprannome Jazbo, un artista di minstrel show; il sostantivo inglese gism, sinonimo di volta in volta di forza, esaltazione, ancora potenza erotica; il verbo to jizz, designante l’eiaculazione; l’africano jasi infine vuol dire vivere sotto pressione, in maniera frenetica. In ogni caso si tratta di suono o parola dai valori non certo edificanti, stando almeno a un’ottica perbenista, come ricorda il pianista Eubie Blake: «Non pronuncio mai la parola jazz davanti a una signora. È un vocabolo molto sporco!».

Quando si dice jazz oggi si pensa a musicisti, concerti, dischi, strumenti, ma il contributo fornito dal modo in cui questa musica affronta il suono fisico influenza molte altre esperienze, dalla pittura al teatro, dal fumetto alla poesia, dalla narrativa al cinema, dalla foto al video. Jazz è il titolo di un grande romanzo del premio Nobel Toni Morrison e prima ancora di una bella commedia di Marcel Pagnol. Jazz è uno splendido libro d’arte dipinto da Henri Matisse a 78 anni sulla sedia a rotelle. Jazz è il microcosmo di un intellettuale a 360 gradi come Boris Vian, trombettista, drammaturgo, critico, produttore, romanziere, dixielander, bopper, cantante, paroliere, chansonnier, «jazzfilosofo» nella Parigi che si libera dal nazismo. Jazz è la prosodia di Jack Kerouac dai singolari haiku alle pagine rutilanti di Sulla strada e I sotterranei. Jazz è una parola usata nei dischi di rockstar come Frank Zappa, Brian Ferry, John Mayall, Paul Weller… Jazz infine è la raccolta di venti sollecitazioni qui illustrate che rimandano ad altrettanti universi immaginifici.

Original Dixieland Jass Band. È la prima volta che la parola jazz appare al pubblico bianco, nel nome di un gruppo di musicisti destinati a incidere nel 1917, a New York, il primo disco jazz: Livery Stable Blues (Tiger Rag sul lato B). Il termine è ancora scritto con la doppia esse, anche se alla fine del 1917 sarà già con le due zeta. Il quintetto di New Orleans di estrazione proletaria, con figli ribelli di poveri immigrati anche d’origine italiana (il leader Nick La Rocca alla cornetta e Tony Sbarbaro alla batteria), durerà fino al 1926 e poi ancora tra il 1936 e il 1938.

The Jazz Age. L’età del jazz riguarda i primi anni Venti quando l’euforia di una quotidianità scatenata tra balli, feste, bevute, giunge alle stelle e al parossismo: questo è almeno il punto di vista del romanziere Francis Scott Fitzgerald nella raccolta Tales of the Jazz Ages («L’età del jazz e altri scritti»), uscita del 1922, tre anni prima del capolavoro Il grande Gatsby, quando aveva soli ventiquattro anni; il libro raccoglie undici novelle (dove non si parla mai di jazz, direttamente) pubblicate su alcune riviste qualche mese prima, illustrando assai bene un modus vivendi tra modernità e decadentismo, al ritmo vertiginoso di automobili e grattacieli, tip-tap e charleston.

Jazz Me Blues. È il primo microsolco con un brano in cui appare la parola jazz: si tratta di un blues, come quasi tutti i pezzi delle orchestrine hot; a inciderlo per prima è ancora l’Original Dixieland Jass Band, ma la versione seminale appartiene ai Wolwerines del cornettista Bix Beiderbecke che nel 1924 ne farà un classico del linguaggio jazzistico bianco. E Jazz Me Blues resterà tra gli standard più eseguiti anche dai successivi maestri, da Louis Armstrong a Bobby Hackett, da Eddie Condon a Pete Fountain.

The King of Jazz. Sul re del jazz la questione è annosa e da sempre aperta e controversa; insomma chi è il vero «king of jazz»? Joe King Oliver o Nat King Cole? O altri ancora. Va detto che da sempre gli americani, repubblicani convinti, amano fregiare di titoli nobiliari molti jazzisti da Count Basie a Prince Lasha, da Duke Ellington a Benny Goodman (The King of Swing), benché il titolo assoluto di «King of Jazz» – da cui l’omonimo color film del 1930 diretto da John Murray Anderson – è attributo a Paul Whiteman, il meno jazzista di tutti. Per consolarsi il doppio album The Kings of Jazz di Gilles Peterson & Jazzanova del 2006 è un bel campionario di autentici monarchi (reximati e non).

Jazz At The Philarmonic. Non ha niente a che vedere con la musica classica, ma solo con un grosso teatro di Los Angeles dove il 2 luglio 1944 il produttore impresario Norman Granz organizza un mega concerto con ben 17 stelle, tra cui Illinois Jacquet, Nat King Cole e Les Paul destando grande sensazione tra il folto pubblico. Da allora A Jazz Concert at the Philharmonic Auditorium divenuto Jazz at the Philharmonic durerà fino al 1983, vedendo in scena gente come Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Lester Young, il Modern jazz Quartet.

The First Book Of Jazz. Il primo libro del jazz è opera del grande autore neroamericano Langston Hugues che scrive romanzi, saggi, poesie, che in tarda età crea jazz poetry con Charles Mingus per il disco Weary Blues e che nel 1955 pubblica questo testo per l’infanzia, dove il jazz è spiegato anche con il supporto delle eleganti stilizzate immagini di Cliff Roberts. «First book» in inglese significa «sussidiario» e non ha niente a che fare con il primo libro di jazz in assoluto, che è invece Le jazz scritto in francese da André Cœuroy e André Schæffner e pubblicato a Parigi nel 1926.

Jazz on a Summer’s Day. Il jazz in un giorno d’estate è quello che si suona e si ascolta nel 1958 a Newport, una sorta di Portofino sull’East Coast, dove viene organizzato un Festival con grossi nomi: Louis Armstrong, Thelonius Monk, Gerry Mulligan, Mahalia Jackson, Max Roach, Chuck Berry, ecc., tutti puntualmente ripresi dall’obiettivo del fotografo Bruce Stern, qui eccellente regista per un documentario con uno splendido colore, che resta ancor oggi il migliore tra quelli dedicati al jazz e che ispira nella tecnica – dalle riprese al montaggio – film assai più celebri quali Woodstock e Monterey Pop.

Jazz Men. Nel 1958 il pittore monzese Giancarlo Cazzaniga (1930-2013) inizia la serie degli «Uomini di jazz» che di fatto, a centinaia fra tele, disegni, litografie, proseguirà ininterrottamente sino allo scorso anno: ispirati all’espressionismo, inseriti nella corrente lombarda del realismo esistenziale, questi «Jazz men» in azione, soprattutto in assolo ai sassofoni, alla batteria, alla tromba, tra viola nebbiosi, rossi accesi, gialli scoppiettanti, sono figure metafisiche, gioiose e inquiete al tempo stesso.

Jazz Party. La festa del jazz non riguarda il 30 aprile, ma il titolo di un album che il grande Duke Ellington registra nel 1959 per la Columbia con tre ospiti insoliti, ben evidenziati anche in copertina, accanto al nome del fido Johnny Hodges (sax alto): si tratta del geniale bopper Dizzy Gillespie alla tromba, del cantante blues Jimmy Rushing (prestato dalla Count Basie Orchestra) e di un secondo pianista, Jimmy Jones, che fa le veci del Duca impegnato a dirigere una big band di ben 25 elementi. La particolarità del disco – unica nella carriera ellingtoniana – riguarda il carattere percussivo di quasi tutti i brani in scaletta.

Jazz in the Space Age. Il «jazz dell’era spaziale» non è l’ennesima trovata lounge o exotica, ma il titolo di un disco di George Russell, forse né avvenirista né fantascientifico (tranne la copertina), però di certo innovativo: registrato nel 1960 con un’orchestra comprendente celebri solisti (Bob Brookmeyer, Bill Evans, Paul Bley ecc.) l’ellepì – ancora attualissimo – è un lavoro ambizioso che mescola improvvisazione libera recuperando le antiche scale lidie per un nuovo jazz modale: è descritto dall’autore come «sequenze liberamente associate» agli stati d’animo di un sound afroamericano senza tempo.

Free Jazz. Il jazz libero, dopo due-tre anni di incubazione estetica, ha finalmente un manifesto programmatico e un’opera compiuta, anche se aperta: è l’album che il Double Quartet di Ornette Coleman pubblica nel 1960 per l’Atlantic, a segnare una svolta epocale; i 37 minuti di Free Jazz. A Collective Improvisation sono atonalismo estemporaneo, senza introduzione tematica, in un climax informale ispirati anche all’action painting di Jackson Pollock, di cui un quadro, non a caso, figura sulla copertina del vinile. Dopo questo capolavoro, molti non vorranno più sentir parlare di jazz.

Genius + Soul= Jazz. Da quando, nel dopoguerra, il jazz si intellettualizza, la black music recupera forme popolari come il blues e il gospel, lasciando ai musicisti la possibilità di spaziare fra i generi: simbolo di questa fusion ante litteram è Ray Charles che, ancora negli anni Cinquanta, all’apice del successo, alterna dischi r’n’b a 33 giri hard bop. Questo album del 1961 (unico da lui inciso per la Impulse) dal titolo curioso vede il leader solo all’organo, attorniato dagli orchestrali di Count Basie, tra swing, funky, mainstream, con arrangiamenti di Ralph Burns e Quincy Jones, in perfetta sintesi di esperienze afroamericane.

Jazz Life. La vita jazz (o del jazz) è un lungo viaggio che il fotografo californiano William Claxton e il musicologo tedesco Joachim Berendt conducono negli States, coast to coast, nel 1961, su una Chevrolet decapottabile a fotografare in loco e registrare dal vivo la musica che si suona in quegli anni non solo nei jazz club delle grandi città, ma anche negli sperduti paesini, dove il blues arcaico è ancora presente. Ne nasce un reportage epocale e un libro illustrato di grosse dimensioni (forse il più voluminoso in assoluto per l’editoria jazz) destinati tanto ai «cultori della materia» quanto ai fan irriducibili.

The Giants of Jazz. I «giganti» sono Art Blakey, Dizzy Gillespie, Al McKibbon, Thelonious Monk, Sonny Stitt e Kai Winding, che il 14 novembre 1971 tengono al Victoria Theatre di Londra il loro «unico» concerto, a dar vita all’ultimo mitico gruppo bebop: sono passati quasi due decenni, da quando il 15 maggio 1953 The Jazz at Massey Hall di Toronto con il cosiddetto The Quintet – Dizzy Gillespie, Charles Mingus, Charlie Parker, Bud Powell, Max Roach – celebra di fatto il canto del cigno della storica avanguardia jazz: poi le svolte cool, modale, free, fusion mettono in ombra i bopper, salvo tornare insieme ancora una volta a fare i «giants».

Jazz. È il titolo del settimo album dei Queen, uscito nel 1978, dove la band di Freddie Mercury mescola diversi stili, senza mai avvicinarsi direttamente al jazz, tranne forse nella canzone Dreamer’s Ball vagamente swingata; per il resto Jazz è ancora oggi ricordato da un lato per brani come Bycicle Race o Don’t Stop Me Now e, dall’altro, per l’interno della copertina a doppia pagina, con la foto di 65 ragazze nude in bicicletta (tutte modelle appositamente istruite) che disputano una gara a Wimbledon per promuovere l’album stesso.

Jazz Band. La «banda» è quella del futuro regista Pupi Avati che nel 1978 decide di raccontare la propria giovinezza jazzistica di clarinettista dixieland in una fiction per la Rai in tre puntate che, alla distanza, si rivelerà tra i migliori jazz film in assoluto: una saga quasi familiare nella Bologna postbellica, dove gli studenti, come il protagonista (interpretato da Lino Capolicchio), si divertono a sfidarsi a suon di hot, di swing e di bebop, sino a formare una jazz band di tutto rilievo (nella realtà felsinea Superior Magistratus Ragtime Band, Panigal Jazz Band, Rheno Dixieland Band, Doctor Dixie Jazz Band i nomi originari).

All That Jazz. Espressione idiomatica che, nello slang americano, significa più o meno «tutto ’sto casino», quasi a ricordare l’estrema irruenza del primo stile New Orleans. All That Jazz. Lo spettacolo continua è anche il titolo di un film del 1979, uno splendido musical diretto dallo specialista Bob Fosse, che per la prima volta, attraverso balletti e canzoni, affronta il tema della morte: la colonna sonora dell’ex coolster Ralph Burns è appena swingata, ma il gran finale con il chitarrista fusion George Benson merita a pieni voti la Giornata del Jazz.

Jazz Rap. La canzone della fusion band Cargo (diretta da Mike Carr) diventa la title track dell’album Jazz Rap Volume One (1985), che apre la via al nuovo genere rap jazz, già preceduto, durante gli anni Settanta, da gruppi come The Last Poets e The Watts Prophets e dal cantautore Gil Scott-Heron (o addirittura nel 1926 da Heebie Jeebies di Louis Armstrong); nel 1989 i Gang Starr sfornano il loro primo album, No More Mr. Nice Guy, dove il pezzo Jazz Thing viene inserito nella colonna sonora di Mo’ Better Blues di Spike Lee, che narra la storia di un giovane jazzman (Denzel Washington) uso a rappare.

Ritratti in jazz. Duplici raffigurazioni in un recente libro destinato a «fare storia»: nel 1997 in Giappone il grafico Wada Makoto chiede al grande romanziere Murakami Haruki alcune didascalie per una serie di tele, in stile pop art, su grandi jazzisti afroamericani; ne fuoriesce una collaborazione che si allarga a nuovi quadri (55 in tutto), mentre le frasette diventano autentici racconti di ispirata poesia e autentica passione su ciò che Jelly Roll Morton, Duke Ellington, Louis Armstrong, Charlie Parker, Eric Dolphy, e altri rappresentano nell’intimo dello scrittore.

Jazz Punk. Nel 2000 il chitarrista David Fiuczynski registra quest’album, un mix iper-elettrico di Jimi Hendrix, Pat Metheny, Ronald Shannon Jackson, George Russell, Chick Corea, ma anche Chopin, Strayhorn, Ellington e Sousa; Punk Jazz è invece il titolo di un antologia (1968-1986) postuma (2003) di Jaco Pastorius; tuttavia l’unione fra il punk e il jazz viene sperimentata già tempo prima, all’epoca dei Clash e dei Ramones, quando alcuni nuovi gruppi a Londra e New York incrociano timbri hardcore e assolo free su ritmi velocissimi: gli inglesi Pig Bag, Pop Group, Rip Rig & Panic, gli americani Lounge Lizard, Slickaphonics, James Chance, tutti da riscoprire.

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