Bartók e Sibelius secondo Esa-Pekka Salonen
A teatro Il maestro finlandese dirige al teatro dell'Opera di Roma un applaudito concerto insieme all'Orchestra Philarmonia di Londra
A teatro Il maestro finlandese dirige al teatro dell'Opera di Roma un applaudito concerto insieme all'Orchestra Philarmonia di Londra
Scrive Bartók, del suo Concerto per Orchestra: «L’aspetto generale del lavoro rappresenta, a parte il danzante secondo tempo, un graduale passaggio dalla severità del primo tempo e dal cupo canto di morte del terzo all’affermazione di vita dell’ultimo tempo». Sono anni terribili: in Europa c’è la guerra, Hitler si è annessa l’Austria, e anche in Ungheria si instaura il fascismo. Bartók si trasferisce negli Usa nel 1940. Ha problemi economici. Ottiene un incarico alla Columbia University per il biennio 1941-1942. Che non è rinnovato. Si ammala di leucemia. Nel 1943 Kussewitzky, direttore dell’Orchestra Sinfonica di Boston, gli chiede un lavoro per l’orchestra. Il 1 dicembre 1944 il Concerto per Orchestra è eseguito a New York, con esito trionfale. Insieme al Terzo Concerto per pianoforte, al Concerto, incompiuto, per viola, e alla Sonata per violino solo, è il suo testamento. Muore, infatti a New York nel 1945. Esa-Pekka Salonen, in tournée con l’orchestra Philarmonia di Londra, ha cominciato il suo concerto romano, al Teatro dell’Opera, con questa densissima pagina, che è insieme uno sguardo retrospettivo a un secolo di musica, e una intima, fosca, riflessione sul destino degli uomini. L’euforia ritmica del finale non guarisce la desolazione del canto che l’ha preceduta. Non si sa se ammirare di più la straordinaria morbidezza degli archi dell’orchestra o l’infallibile intonazione e la nitidezza timbrica dei legni e degli ottoni, la discrezione delle percussioni. Sotto la guida di Salonen si ascolta una musica che con estrema libertà di fraseggio si fa pensiero, riflessione, sulla vita, su noi stessi, suscita emozioni che sembrano affondare in una lontanissima infanzia: il canto popolare è reinventato a ricordarci più che la nostra origine la nostra somiglianza, l’uguaglianza dei popoli.
Una musica, checché se ne dica, che volta le spalle all’Ottocento, lo dichiara finito, lo rimpiange, ma sa che il Novecento è un’altra cosa. Nel 1899, quando Sibelius la fa eseguire a Helsinki, Debussy ha già composto il Prélude à l’après-midi d’un faune.
BARTÓK non poteva che fuggire dal nazismo, la sua musica lo canta: a vivere c’invita la danza, l’amore per la vita. L’altra pagina del concerto ci porta mezzo secolo indietro, alla Prima Sinfonia di Jean Sibelius, tutta intrisa di memorie ciaikovskiane, ma sgretolate, dissolte in una rete che sembra imbrigliare un mondo che si dissolve, scompare. Una musica, checché se ne dica, che volta le spalle all’Ottocento, lo dichiara finito, lo rimpiange, ma sa che il Novecento è un’altra cosa. Nel 1899, quando Sibelius la fa eseguire a Helsinki, Debussy ha già composto il Prélude à l’après-midi d’un faune. Sibelius registra il cambiamento, ma a modo suo. Come, in ambito tedesco, fa Richard Strauss. Decostruendo e ricostruendo le tessere della tradizione tardo-romantica. Del resto, lo stesso Schonenberg, di quella tradizione, è il continuatore, non il distruttore. E sono tutti contemporanei. Ma c’è un’altra affinità che Salonen sembra voglia suggerirci: ungheresi e finnici parlano lingue dello stesso gruppo e diverse da tutte le altre lingue europee. Due splendidi bis, il Puccini delle Villi e una danza di Sibelius, chiudono un concerto che ha entusiasmato il pubblico del Teatro dell’Opera.
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